Per puro caso* ho scoperto, un paio di giorni fa, un bell’articolo pubblicato sul Foglio di sabato scorso.
L’articolo è uno di quei rari casi nei quali la stampa cosiddetta generalista si occupa di un argomento, la previsione strategica, generalmente ostico, poco dibattuto e, spesso, frainteso.
Scrive il giornalista Marco Valerio Lo Prete:
[…] c’è chi preferisce guardare a cosa accadrà nel “lungo termine” senza i lacci e lacciuoli polemici che per forza sono annessi al dibattito di idee, e chi analizza scenari futuri senza l’onere di dover prescrivere soluzioni più o meno adeguate.[…] In maniera quanto più asettica possibile, questi studiosi e analisti si chiedono semplicemente: dove saremo nel 2030? E cosa saremo? La crisi economico-finanziaria globale non ha fatto altro che riportare in auge – tra addetti ai lavori e amministratori coscienziosi, si intende, perché la materia non è da bestseller – questi epigoni del visionario H.G. Wells che nel 1932, parlando alla Bbc, propose di dare vita nelle università a “Dipartimenti e cattedre di Previsione”. Non solo: le inedite e recenti turbolenze geopolitiche hanno spinto alcuni governi a dare nuovo sostegno finanziario e maggiore visibilità pubblica a questo tipo di studi, che pure sono sempre stati condotti in maniera più o meno segreta.
Nell’articolo viene fatta una sintesi di due recenti studi sulle tendenze globali pubblicati dallo European Union Institute for Security Studies e dal National Intelligence Council americano – rispettivamente il “Global Trends 2030: Citizens in an Interconnected and Polycentric World” ed il “Global Trends 2030: Alternative Worlds” – focalizzandosi sull’impatto che tali trends (orizzonte temporale 2030, appunto) avrebbero sul nostro continente.
Ciò che, a mio avviso correttamente, evidenzia Lo Prete è che, a fronte di una prospettiva di medio-lungo termine non proprio rosea, “I paesi dell’Ue, studiati sull’altra sponda dell’Atlantico come fattore di potenziale e grave instabilità, non si sono ancora dotati di un processo di elaborazione di dati e scenari strutturato come quello dell’Amministrazione americana. […] Washington ormai da quasi un ventennio impiega in maniera sistematica i suoi migliori cervelli per scandagliare il tempo “non vuoto” che verrà. L’Unione europa inizia a replicare meccanismi simili su scala per ora minore, senza avvalersi ufficialmente di strutture amministrative e d’intelligence, mentre gli stati nazionali – che pure sono al centro della più grave crisi economica e istituzionale che si ricordi da decenni – non sembrano attribuire sufficiente importanza ad analisi previsionali e riflessioni strategiche.“
Nel panorama europeo, come ben sa chi si occupa di questi temi, l’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza di Parigi e lo European Strategy and Policy Analysis System costituiscono due positive eccezioni ed è proprio un recentissimo brief del Direttore dell’EUISS che voglio segnalarvi.
Il titolo è “Strategic Foresight – and the EU” ed Antonio Missiroli fa una veloce, ma interessantissima, carrellata sui concetti di “foresight” e di “strategy” e sul loro utilizzo nell’ambito dell’Unione Europea.
Soffermandoci, per brevità, solo sul primo emerge che:
Various political and institutional initiatives across the Union indicate a growing interest in strategic thinking and analysing trends and factors that may affect Europe’s position in the years and decades to come.
Big shocks and tectonic shifts – such as large-scale wars, protracted economic crises, or technological revolutions – have often prompted calls to identify new ‘megatrends’ and sketch out far-flung futures. These calls have been made, understandably, after the sequential events of the Great Depression, World War II, and the Cold War. And the same is happening again now.
However, there is one big difference between, say, the early 1950s and the current situation. Back then, in fact, the climate in which ‘future studies’ started blossoming – thanks to pioneer ‘futurologists’ like Hermann Kahn or Daniel Bell – was one of relative predictability (of the domestic environment, the core variables, the main actors) and state-centred policy-making (or even planning). In essence, states and governments were in control of borders and markets.
Today, neither is true: the future, even the immediate future, looks highly unpredictable, while states and governments are no longer in control, at least not to the same extent as in the 1950s (or even the 1990s). Complexity, chaos and network theories emphasise the fact that we now operate within open systems and that any policy should just try to build resilience and ‘prepare to be prepared’. As a result, ‘foresight’ is now fundamentally different from what it used to be, and surely a more hazardous undertaking. There has indeed been no shortage of intelligence blunders and so-called ‘strategic surprises’ in recent years, from 9/11 to the ‘Arab spring’ – not to mention the financial crisis itself. Maybe this unpredictability of predictions is the reason why looking to the future(s) has turned into a flourishing business, no matter whether it is named strategic foresight, horizon scanning, international futures, or just scenario planning. Of course, methodologies vary significantly: some aim at raising awareness and fostering preparedness; others at offering menus of competing policy options or ‘alternative worlds’; and a few of them border on open advocacy and spin. In finance, risk analysis is a varying combination of them all (while ‘forecasting’ is a predominantly statistical exercise). In public policy, these are all seen now as indispensable tools for 21st century statecraft, linking trend-spotting with agenda-setting.
In sum, it seems legitimate to say that the EU, as a whole, can be quite good at gathering targeted information but is less good at processing, disseminating and sharing it. More lately, the fledgling European Strategy and Policy Analysis System (ESPAS) has started trying to bring together relevant expertise from all EU institutions and bodies (and beyond) with a view to promoting a joint ‘foresight’ capacity, somewhat along the lines of what the US National Intelligence Council (NIC) has been doing since the mid-1990s. Yet, despite the name of the initiative, its scope seems limited to preparing the ground for – rather than carrying out – ‘strategy’ proper.
Ricapitolando: l’esigenza di effettuare studi previsionali ri-emerge – com’è ovvio che sia – ogni qualvolta il futuro è incerto e/o si è in presenza di gravi shock o di importanti discontinuità (ad es.: anni ’50, anni ’70, anni ’90).
Viviamo proprio uno di questi periodi ed è naturale che governi, organismi internazionali ed aziende private si attrezzino per vedere più in là, oltre l’oggi, e si preparino per le sorprese che può riservare il futuro. Un futuro che, è bene ricordarlo, non è scritto o determinato ma sarà, invece, il frutto anche delle scelte attuali.
Gli Stati Uniti e più in generale il mondo anglosassone (ma anche Singapore, ad esempio) aprono la strada e l’Europa, un po’ timidamente, segue.
* L’autore, molto gentilmente, cita questo blog.