Ieri Linkiesta ha pubblicato un’intervista al Prof. Mattia Diletti, autorevole studioso dei think tank, sul rapporto tra questi centri di ricerca e la nostra classe dirigente.
Estrapolo liberamente alcuni passaggi che sono, a mio avviso, particolarmente rilevanti. Soprattutto l’ultimo laddove il Prof. Diletti sottolinea il limite culturale della nostra classe dirigente priva di visione prospettica e di approccio sistemico:
Il termine “think tank” è un’invenzione americana che risale al secondo Dopoguerra, con cui si definiscono i centri che svolgono attività di studio e ricerca indipendente, rivolti all’innovazione della cultura politica o delle politiche pubbliche; possiamo tradurre il termine con “serbatoio di pensiero”. Il loro obiettivo è quello di influenzare il dibattito pubblico intorno alle politiche da seguire oppure quello di influenzare direttamente il decisore pubblico. Negli Stati Uniti sono un supporto fondamentale all’attività politica: gli esperti che dibattono e producono idee cercano di influenzare l’opinione pubblica perché anche i decisori ne siano condizionati, oppure cercano direttamente un rapporto, una relazione diretta, con il governo e la politica.
La loro funzione è quella di aiutare il governo, e più in generale la classe politica, a pensare. Sono gruppi di tecnici che dibattono scientificamente sui settori di politica pubblica e costituiscono una risorsa per la politica. Negli Usa c’è una tradizione centenaria al riguardo e condizioni strutturali che non permettono di replicare quell’esperienza in Europa. Non abbiamo, tanto meno in Italia, le stesse strutture di ricerca degli americani, né la stessa convinzione culturale che sia imprescindibile investire nella ricerca. Che sia politica, scientifica od orientata al business. In America, i think tank sono università senza studenti, con un elevatissima qualità di uomini e di elaborazioni prodotte. Non godono di finanziamenti pubblici e reperiscono i loro capitali dai privati. Da noi, i finanziamenti sono spesso anche pubblici, ma sempre troppo esigui e questo inficia il risultato finale delle ricerche.
Anche in Italia abbiamo think tank “all’americana” tra i 106 che abbiamo censito. Fanno ricerca, ma hanno spesso difficoltà a influenzare e raggiungere il decisore e l’opinione pubblica. Non riescono, talvolta, neanche a far uscire il dibattito dai loro convegni, figuriamoci raggiungere il Parlamento o il Governo. Hanno budget limitatissimi che ne fanno un’arma spuntata, non inutile, ma depotenziata.
La nostra indagine ha rivelato che solo i centri studi che si aprono alle relazioni, anche internazionali, e creano con omologhi nazionali ed europei una rete di sapere, sono quelli vincenti. In politica estera il nostro sistema di think tank, come Iai e Ispi, è ben radicato nelle relazioni internazionali ed è di grande ausilio per le istituzioni nazionali. Le riporto il caso del Cerfe, che non conoscevamo bene neanche noi ricercatori, ma è uno dei pochissimi enti riconosciuti e accreditati nel rapporto stabile con la Banca Mondiale. I centri di ricerca italiani avrebbero bisogno di interventi radicali che permettano di lavorare sul prodotto, sulla comunicazione e capacità di diffusione del messaggio. Abbiamo grandi potenzialità, alcuni prodotti di qualità, ma non li sappiamo promuovere.
[…] a noi manca una classe dirigente, pubblica e privata, che abbia una visione sistemica. Se l’avessero, avrebbero da un pezzo finanziato il lavoro di ricerca e riflessione sulle macro politiche per il paese. E i politici si affiderebbero alla ricerca sociale e non solo ai sondaggi, per capire il paese. Le cose cambieranno quando tutto il paese crescerà in capacità di riflessione e ragionamento. Ciò sarà possibile quando saranno costituite le arene e i luoghi di dibattito dove farlo. Serve che crescano le fucine delle idee e della formazione. Ma serve anche che la politica investa nel capitale umano del paese, per porre rimedio alla sua inefficienza e impreparazione.
[…] Alla radice c’è un problema strutturale del paese che è difficile cambiare: c’è troppa poca classe dirigente capace di produrre visione di sistema, di tenere insieme la comprensione dei cambiamenti globali e delle necessità locali, per esempio. Non bastano le riflessioni dell’Istat o della Banca d’Italia per far crescere le capacità di mobilitazione cognitiva, per usare un termine ora di moda, di questo paese. Servono centrali delle idee più forti e meglio organizzate.