di Enrico Cisnetto, dal Messaggero del 20 ottobre
Fitch e Standard & Poor’s dicono che l’Italia non è in grado di rilanciare lo sviluppo
Un declassamento meritato e assolutamente bipartisan. L’abbassamento del giudizio sulla solvibilità del nostro debito pubblico da parte di due su tre delle maggiori agenzie internazionali di rating, Fitch e Standard & Poor’s, conferma la fragilità delle politiche economiche di questi ultimi anni, in un continuum di responsabilità che accomuna entrambi i poli. Infatti, se è vero che il provvedimento era già stato anticipato a maggio – quando sotto giudizio era la gestione Berlusconi – è altrettanto vero che il brutto voto di ieri riguarda anche la Finanziaria appena varata dal governo Prodi, sulla quale la valutazione delle agenzie è stata tanto circostanziata quanto ruvida. Con qualche distinguo, entrambe le agenzie di rating hanno sottolineato che ancora una volta l’Italia non è stata in grado di aggredire con misure strutturali la spesa pubblica, di rilanciare lo sviluppo, e che si è – cito testualmente dal titolo del documento di S&P – “di nuovo chiusa la porta su un’altra possibilità di risanamento”. In una parola, se Tremonti aveva lasciato i conti non allineati con i massimali Ue, Padoa-Schioppa non ha fatto quello che aveva promesso in un Dpef che andava nella giusta direzione ma il cui spirito è andato perso nell’ansia di soddisfare i diktat “estremistici” della sinistra-sinistra e del sindacato. Per questo, la cagnara che subito si è scatenata, con il centro-sinistra che “buttava addosso” le responsabilità soltanto alla gestione precedente, e il centro-destra che ne approfittava per tentare la “spallata” contro l’esecutivo, è apparsa del tutto fuori luogo. Come l’idea che le riforme che servono al Paese possano scaturire dal confronto (si fa per dire) tra una coalizione che sopravvive blindando la Finanziaria in parlamento e l’altra che non trova di meglio che portare la borghesia in piazza.
Detto questo, non bisogna neppure sopravalutare le agenzie di rating e i suoi giudizi, che altre volte si sono mostrati superficiali se non fallaci. Non è un caso che ieri lo spread – cioè il differenziale di rendimento – tra i Btp decennali e i Bund tedeschi, il più sensibile tra i termometri del mercato finanziario, sia aumentato solo di tre quarti di punto dopo l’annuncio di Fitch e di altri due punti base dopo quello di S&P, per poi tornare ai livelli pre-downgrade. Certo, bisogna considerare che gli analisti prevedono un ulteriore “allargamento” nelle prossime settimane a 30-31 punti base, cioè sui livelli in cui si trovava sei mesi fa quando si è insediato il governo Prodi. E non va dimenticato che da 18 mesi ormai i Bot viaggiano a tassi costantemente superiori all’inflazione, per cui gli investitori si portano a casa un premio di maggior rischio sotto forma di rendimenti più remunerativi. Ma faremmo male a sentirci vittime dello “straniero cattivo”, vuoi che abbia le sembianze di un’agenzia di valutazione o quelle dell’Europa, che continua a chiederci di risanare i conti intervenendo su pensioni e sanità, e poi di aumentare il tasso di occupazione – specialmente per donne e anziani – e di innalzare la nostra produttività.
Queste cose – e molte altre, a cominciare dalla riconversione produttiva del nostro sempre più marginale capitalismo – bisogna farle non perchè ce le chiede qualcuno, ma perchè sono necessarie per ridare una speranza di sviluppo a questo benedetto Paese.
Ora, però, dopo la doccia fredda del declassamento, bisogna decidere in fretta cosa fare. La Finanziaria si può modificare? Fino a che punto? Ci dobbiamo accontentare di rattoppi, tipo quello ipotizzato sul tfr ieri sera nel confronto tra governo, sindacati e Confindustria? Quanto è disposto Prodi a mettersi in gioco? E si può passare dal “tavolo dei volonterosi” a quello dei “decisori”, perchè le cose marcino diversamente? Non sappiamo che risposte saprà dare la politica, ma ci accontenteremmo se i volonterosi della condivisione riuscissero a stabilire che la prossima Finanziaria, chiunque la faccia, sia semplicemente una manovra di bilancio che stabilisce soltanto l’ampiezza dei flussi, e lascia fuori il contenuto delle politiche economiche, purchè si muovano all’interno dei confini tracciati. Sarebbe solo una “riforma metodologica”, ma sarebbe meglio di niente.