Un articoletto facile facile ma utile…
di Paolo Savona
LA NOSTRA è una società “terziaria”, ossia i servizi sono la maggior parte della produzione annua italiana, e la politica e le classi dirigenti ne devono saper trarre le necessarie implicazioni. Che cosa significa non essere più una società “secondaria” (o, se si preferisce, industriale)?
Innanzitutto significa che i lavoratori impiegati nei servizi sono tre volte e mezzo quelli impiegati nell’industria, con un residuo di occupazione inferiore al 10% nel settore “primario” (agricoltura, allevamento e pesca). In occasione delle elezioni essi sono quindi la parte largamente dominante. Le loro scelte sono quelle che determinano la maggioranza parlamentare se a esse non si contrapponessero quelle dei pensionati, la cui entità numerica è pari alla loro. I lavoratori dell’industria sono quindi in netta minoranza nella dinamica elettorale. Salvo pochi scarti di punto, la ripartizione percentuale del prodotto rispecchia quella dell’occupazione con la conseguenza che il nostro benessere poggia sui servizi e non sull’agro-industria.
Le notizie della stampa e della TV non rispecchiano questi pesi relativi e si continua a dare rilevanza agli andamenti dell’industria e alle dichiarazioni dei loro rappresentanti e solo marginalmente a quelli delle due categorie largamente dominanti. Si perde così contatto con la realtà e con la dinamica politica sottostante e la società ha la sensazione che ciò che accade ai “livelli alti” non abbia a che fare con la “pancia” dei problemi, ma con la “testa”. E’ cioè un fatto loro!
Limitandoci all’esame dello stato dell’economia, sappiamo che il primario gode di ampie protezioni concordate a livello europeo, l’industria è ampiamente liberalizzata e i servizi sono di fatto in regime non competitivo, che la recente proposta di direttiva (la c.d. Bolkenstein) ha perpetuato, facendo però finta di non averlo fatto. L’industria ha quasi mezzo secolo di esercizio alla competizione e nelle componenti più vulnerabili al prezzo patisce della concorrenza a basso costo e “copiona” della Cina e non solo di essa. Ma pesa il 20% e anche meno, data l’ampiezza raggiunta dalle grandi società di servizi per l’energia, la telefonia, i trasporti e l’acqua. I prodotti industriali esportabili sono una parte trascurabile del prodotto totale e, se non si distinguono per qualità e prezzo, a essi e solo a essi si può attribuire la “perdita di competitività” presa a sintomo inequivocabile della decadenza del Paese. Ma per quanto si perda sul 10-20% del prodotto la crisi non è lì. A parte il problema della competizione agricola che meriterebbe un’apposita analisi, il problema della competitività si concentra nei servizi, ma non per discutere di perdita, perché perdita non c’è stata, ma di mancato raggiungimento dello status competitivo. Su questo comparto dell’economia si registrano ritardi tecnologici (si pensi allo scarso uso delle tecniche informatiche), inefficienze di ogni tipo che tengono bassa la produttività e rincari ingiustificati di prezzo che tengono alta l’inflazione. Le statistiche parlano chiaro: i settori esposti alla concorrenza hanno la produttività più elevata e l’inflazione più bassa, mentre quelli non esposti (e tra questi i servizi) hanno la produttività più bassa e l’inflazione più elevata. Perciò guadagnano di più!
Su questi problemi andrebbe centrato un serio impegno di governo e un’altrettanta seria politica europea. Ma dibattito politico e iniziative pratiche sembrano andare in tutt’altra direzione, con una domanda di protezione che, se assecondata, manterrà il Paese e la sua economia fuori dalle grandi correnti storiche moderne, tra le quali, piaccia o non piaccia, campeggia quella della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica. Il problema non è quindi se stiamo uscendo dal contesto competitivo mondiale, ma il perché non siamo riusciti a entrare. Su questo problema non abbiamo riflettuto a sufficienza anche perché una visione distorta della situazione indica nell’industria e non nei servizi il nocciolo del problema da risolvere. L’industria ha ancora due funzioni da svolgere in attesa dei cambiamenti necessari: la prima, di esportare per pagare la bolletta energetica, figlia delle fisime antinucleari del Paese; la seconda, di svolgere il ruolo innovatore e diffusore delle tecnologie che le università e i centri di ricerca non hanno mostrato di saper svolgere. Il traino dello sviluppo, invece, non può che provenire dai servizi ed è a questi che deve essere dedicata la maggior cura.