di Nicola Rossi – La Voce.info
Il Mezzogiorno d’Italia è oggi il luogo dove – più che altrove, più che in altri comparti o settori – più significativo e imperdonabile è lo spreco di risorse pubbliche. Dove – al di là delle intenzioni, spesso nobili, di tanti – lo sforzo collettivo ha raggiunto dimensioni inusitate senza conseguire risultati apprezzabili. E dove, al tempo stesso, un uso, per così dire, particolarmente "disattento" di consistenti risorse pubbliche si associa a gravi carenze nella fornitura dei servizi che dovrebbero costituire invece la stessa ragion d’essere del settore pubblico. Dove, in altre parole, ogni fonte di finanziamento – ogni euro, ogni centesimo di euro – dovrebbe essere allocata e spesa come se fosse l’ultima e viene invece utilizzata come se fosse solo una parte di una serie mai terminata e che mai terminerà.
Più di 55 miliardi di euro in sette anni
Fra il 1998 – anno di avvio della stagione di politiche regionali che va sotto il nome di "nuova programmazione" – e il 2004, si sono riversati sul Mezzogiorno, in termini reali, qualcosa come 120 miliardi di euro di spesa pubblica in conto capitale. Per calcolare la spesa pubblica in conto capitale specificamente destinata al Mezzogiorno, togliamo da questa cifra (i 120 milioni di cui alla frase precedente) una somma pari a quella che il Mezzogiorno avrebbe comunque ricevuto come parte del territorio nazionale, cioè pari a quanto storicamente osservato nello stesso periodo al Centro-Nord in percentuale sul prodotto. Ne risulta una spesa pubblica in conto capitale specificamente dedicata al Mezzogiorno valutabile in poco più di 55 milioni di euro sul periodo specificamente dedicata al Mezzogiorno è valutabile in poco più di 55 miliardi di euro sul periodo 1998-2004 ai prezzi del 1995. Un ordine di grandezza più che significativo non solo in termini assoluti ma anche in termini relativi. Per intendersi, si tratta di circa tre volte lo stanziamento previsto nel 1950 al momento del varo della Cassa del Mezzogiorno per i primi sette anni di operatività di quell’ente. Poco meno del 40 per cento di quanto speso dalla Cassa per il Mezzogiorno, prima, e dall’Agenzia per la promozione dello sviluppo nel Mezzogiorno, dopo, nei quasi quarant’anni di vita dell’intervento straordinario.
Se poi i termini di paragone storici non sono sufficienti, non mancano quelli attuali. E non sono meno sconcertanti. Il volume di spesa pubblica in conto capitale riversatasi sul Mezzogiorno fra il 1998 e il 2004 è pari al 40 per cento del costo del programma di grandi opere approvato dal Comitato interministeriale per la programmazione economica nel dicembre 2001. Più precisamente i citati 55 miliardi di euro sono molti prossimi alla spesa prevista dal primo programma di infrastrutture strategiche della legge-obiettivo nel Mezzogiorno. Anche se si desse per scontata – ed è fuor di dubbio che lo si debba fare – una significativa sottostima nelle indicazioni della legge-obbiettivo, il raffronto fra quel che poteva essere fatto e quel che non è stato fatto rimane impressionante.
I problemi restano
Sette anni sembrano essere passati, peraltro, pressoché invano. La debole crescita meridionale degli ultimi anni si rivela infatti come sospinta da una spesa pubblica di bassa qualità che non riesce a tradursi in fattore strutturale di crescita e in potenziale di sviluppo. Una crescita in termini pro capite dovuta in larga misura all’operare, da qualche anno, di processi migratori interni di significativa intensità e non lontani, nell’ultimo quinquennio, da quelli registrati negli anni Cinquanta. Una crescita addirittura inferiore a quella che la stessa "nuova programmazione" stimava come probabile in assenza di un miglioramento della qualità degli investimenti pubblici.
Le distanze fra il Centro-Nord e il Sud del paese sono rimaste, nel complesso, inalterate (e, se qualcosa è accaduto, è che l’economia meridionale è diventata, in questi anni, molto meno competitiva e un po’ meno dipendente). Se ci si aspettava che gli interventi adottati nell’ambito delle azioni previste dal Piano di sviluppo del Mezzogiorno – in cui, nel 1999, si tradusse formalmente la "nuova programmazione" – inducessero visibili elementi di discontinuità nel contesto socio-economico meridionale, ebbene, si è atteso a vuoto. Se ci si aspettava che la politica degli investimenti pubblici avesse un impatto significativo sulle "variabili di contesto" in modo tale da modificare strutturalmente il processo di accumulazione del settore privato, ebbene ciò non è avvenuto.
Sotto tutti i principali punti di vista, il Mezzogiorno è e rimane, oggi come ieri, il "malato d’Italia". La differenza – se se ne vuole trovare una, e non piccola – è che oggi, diversamente da ieri, l’Italia è il "malato d’Europa".
Dopo dieci anni segnati dalla retorica del definitivo superamento dell’intervento straordinario, da un lato, e dei Mezzogiorni, dall’altro, forse è arrivato il momento di riconoscere le difficoltà che questa ha generato: la frantumazione dell’intervento pubblico, la moltiplicazione dei livelli di intermediazione, la sproporzione fra l’impegno massiccio di energie e di risorse e l’esiguità dei risultati. Forse è arrivato il momento, prima ancora che tornare a discutere delle politiche per il Mezzogiorno, di mettere in discussione il nostro stesso modo di guardare al Mezzogiorno.