Oppure se emergerà un modello di «governance» più equilibrato o se il sistema andrà in pezzi, frantumandosi in tante torri di Babele che potranno comunicare tra loro solo sulla base di un’autorizzazione politica.
Il mito della incoercibilità di Internet, della sua naturale libertà è, appunto, solo un mito: il sistema è decentralizzato, ma deve passare attraverso alcuni snodi — la gestione dei «domini» su cui sono basati siti e indirizzi di posta elettronica, i codici «occulti» di 12 cifre, attraverso i quali ogni modem viene riconosciuto dagli altri terminali, i 13 grandi computer centrali che smistano tutto il traffico mondiale, gli standard tecnici internazionali — che richiedono coordinamento e possono essere assoggettati a controllo.
A Tunisi da mercoledì a venerdì 14 mila delegati, 60 capi di Stato e un esercito di amministratori di grandi società internazionali discuteranno un’agenda fittissima: come combattere la criminalità informatica, cosa fare per la pubblicità indesiderata, come ridurre i costi di accesso alla «rete» e renderla un fattore di sviluppo per i Paesi emergenti, ai quali, peraltro, già fanno capo i due terzi dei nuovi allacciamenti degli ultimi quattro anni: 322 milioni di collegamenti che hanno portato il numero degli utenti Internet oltre il miliardo.
Ma i confronti più importanti avverranno a porte chiuse prima dell’inaugurazione del summit: esperti dei vari Paesi discuteranno della gestione dei suffissi (come «.com» o «.it») e degli standard di connessione che consentono alle 250 mila reti che compongono Internet di dialogare e di veicolare ogni giorno 27 miliardi di collegamenti. Aride discussioni tecniche che però hanno una formidabile sostanza politica: consegnare i domini nelle mani dei governi nazionali significherebbe burocratizzare Internet o, addirittura, incatenarla.
Non a caso l’offensiva contro la supremazia statunitense viene condotta da Paesi come Cina, Iran e Siria che hanno cercato di censurare Internet. Il momento per mettere in discussione la matrice americana del sistema non potrebbe essere più propizio. Gli errori della politica estera di George Bush hanno alimentato l’ostilità del mondo islamico, reso più difficili i rapporti degli Stati Uniti con gli alleati europei e, ora, anche con i «cugini» sudamericani.
Ma Washington non ha alcuna intenzione di mollare: sostiene che Internet è un prodotto della tecnologia americana, sviluppato coi soldi dei contribuenti americani e poi messo gratuitamente a disposizione del mondo. Il governo ha già fatto un passo indietro quando, nel 1998, lo ha dato in gestione a una società privata «non profit» — la Icann di Marina del Rey, in California — che gestisce domini e standard. La società è guidata da un australiano e 15 dei suoi 21 consiglieri sono stranieri, ma è soggetta alla sorveglianza del ministero del Commercio di Washington.
Che, però, non le ha mai imposto vincoli.
In linea di principio il sistema andrebbe corretto: è vero che Internet nasce col marchio americano, ma oggi è il cuore del commercio mondiale, un veicolo straordinario per ogni tipo di informazione e un presidio di libertà in molti Paesi. Gli Usa hanno grandi meriti, ma non per questo devono mantenere la sovranità assoluta sulla rete. E’ vero che Washington non ha mai usato il suo potere in chiave politica, coercitiva, ma nulla esclude che un domani possa, ad esempio, chiedere alla Icann di escludere da Internet uno Stato come l’Iran, disattivando tutti i domini «.ir» dalla rete. Alcuni temono poi che gli americani stiano creando un sistema di controllo delle comunicazioni in rete, una specie di «Echelon» di Internet. Uno spionaggio (giustificato con le esigenze della lotta al terrorismo) di certo più facile con un sistema sotto pieno controllo Usa.
E’ quindi comprensibile che l’Europa, pur non volendo trasferire all’Onu la sovranità su Internet come pretendono Cina e Paesi emergenti, chieda l’istituzione di una sorta di forum nel quale anche realtà politiche diverse dagli Usa potrebbero far sentire la loro voce. Il volto esterrefatto del Commissario britannico davanti ai complimenti ricevuti dai Paesi radicali del fronte anti-Usa per questa apertura, da lui comunicata a nome della Ue, è la migliore dimostrazione di quanto sia difficile raggiungere un accordo equilibrato.
Se, come è probabile, bisognerà scegliere il male minore, c’è da sperare che lo scenario post-Tunisi — sia esso di accordo (improbabile), rottura o «impasse» — non metta in pericolo le caratteristiche essenziali del sistema attuale. Nato da un progetto militare, Internet è finito ben presto nelle mani di un gruppo di accademici e imprenditori «visionari»: oggi il suo Dna è proprio quello dell’anticonformismo «liberal» di questi personaggi. E’ un patrimonio da non disperdere. L’Onu ha molti meriti, ma come regolatore di reti ha già dato pessime prove: la sua International Telecommunication Union ha ingabbiato per decenni i sistemi telefonici, proteggendo tutti i monopoli. Lo stesso Kofi Annan ha scritto sul «Washington Post» che l’Onu non deve assumere il controllo di Internet. Se si hanno a cuore la libertà e la prosperità generate dalla rete, non si può certo auspicare che Internet finisca sotto il controllo di governi in maggioranza illiberali.