Una riflessione domenicale ripresa dal Corriere.it:
«La bellezza è un valore morale». Era un tormentone quello dell’allora vescovo di Locri Giancarlo Bregantini. Non perdeva occasione per raccomandare di intonacare le case, sistemare le strade, curare i giardini, perché «in un posto brutto è facile che i ragazzi crescano brutti». Insomma, insiste nel libro Non possiamo tacere , l’estetica è etica: «i paesi più brutti e trascurati sono quelli segnati dalla mafia».
«Niente cultura, niente sviluppo», ha titolato Il Sole 24 Ore lanciando un appello per fare ripartire il Paese puntando su una «costituente» che «riattivi il circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione». I confronti su 125 nazioni, stando ai dati dell’Università di Costanza, non lasciano dubbi: dove c’è più cultura c’è più innovazione, più sviluppo, più ricchezza e meno corruzione.
Rovesciamo: dove c’è meno cultura c’è meno innovazione, meno sviluppo, meno ricchezza, più corruzione. Nel 2001 investivamo sul nostro tesoro d’arte e paesaggi solo lo 0,39% del Pil, siamo precipitati a un miserabile 0,19%: è stato saggio? Colpa della crisi, dicono. Ma investendo nel «Guggenheim», spiega uno studio di Kea European Affairs per la Ue, Bilbao ha recuperato in 7 anni i soldi spesi «moltiplicati per 18», con la parallela creazione di migliaia di posti di lavoro. Al punto d’esser presa a modello dalla Francia, che per rianimare l’agonizzante area di Lens ha deciso di fare lì, tra le fabbriche dismesse, un nuovo «Louvre» col calcolo che, per ogni euro investito, ne torneranno «come minimo sette» (…).
Scrive il Sole 24ore:
(…) Chi intrattiene rapporti di collaborazione con colleghi del mondo accademico straniero si sente spesso chiedere come sia stato e sia possibile che l’Italia attraversi una crisi che verosimilmente dura da alcuni decenni. E lo stupore nasce dal fatto che questa condizione appare paradossale, considerando che possediamo un patrimonio culturale di inestimabile valore, una tradizione di creatività artistica e scientifica individuale abbastanza unica e un sistema di istruzione che ha certamente dei difetti ma continua a sfornare cervelli in grado di emergere quasi con facilità nei dipartimenti universitari stranieri, sia umanistici sia scientifici, o all’interno di enti internazionali, pubblici o privati, che producono o elaborano conoscenze, tecnologie, analisi economiche e politiche eccetera.
È inutile recriminare sulle responsabilità, ma si dovrebbe prendere atto che per varie ragioni negli ultimi decenni si è selezionata una classe politica decisamente scarsa sul piano culturale. E che forse anche per questo non si rende conto del fatto che i Paesi nei quali, storicamente e attualmente, si cresce economicamente e dove si registra un grado elevato di senso civico investono cospicuamente in cultura. E questo perché chi li governa o sa o si è documentato, invece di limitarsi a commissionare sondaggi, sul fatto che la produzione e diffusione di cultura, umanistica o scientifica, purché di qualità, stimola la creatività, e quindi promuove l’innovazione, nonché migliora la vita civile e istituzionale di una società (…)
Nel 2009 la direzione generale per l’educazione e la cultura della Commissione europea ha prodotto uno studio intitolato The impact of culture on creativity. Si tratta di un’ampia riflessione, con tanto di casi di studio e bibliografia, in cui si dimostra con solidi argomenti e dati empirici che dalla combinazione di competenze artistiche, capacità immaginative e un ambiente in cui vi sia un consistente investimento in cultura e istruzione, scaturisce una diffusa creatività basata sulla cultura, che produce innovazione in tutti i settori della vita economica e istituzionale di un Paese. La cultura, spiega e dimostra il rapporto, migliora il profilo affettivo delle persone, la loro spontaneità e l’autonomia, le capacità intuitive, la memoria, l’immaginazione e il senso estetico. Tratti, questi, che generano valori economici e sociali. Per esempio, nuovi modi di guardare i problemi, che aiutano a trovare più rapidamente soluzioni adeguate, una differenziazione dei prodotti, dei consumi e delle aspettative, una salutare messa in discussione di tradizioni conservatrici che solitamente generano diseguaglianze o discriminazioni sociali, senso di identità e appartenenza comunitari che favoriscono la cooperazione e, non ultima, un’attenzione personale più spiccata e qualificata per i valori spirituali, simbolici e immateriali.
È singolare che da parte della classe politica italiana non si sia capito in tempo che aderire alla strategia o processo di Lisbona, cioè accettare di concorrere a trasformare l’Europa nell’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del pianeta, significava prima di tutto investire in produzione di conoscenza e in valorizzazione del patrimonio culturale secondo una logica innovativa ed evolutiva basata su modelli imprenditoriali pertinenti. (…)
Da diversi anni si effettuano studi comparativi su decine di Paesi, in cui si confrontano le prestazioni scolastiche, misurate attraverso i vari test di valutazione (ad esempio Pisa), o la proporzione di «capitale cognitivo», cioè di competenze scientifiche e tecniche in senso lato ma soprattutto nei settori di frontiera della ricerca scientifica e tecnologica, presente in una data nazione, mettendo questi parametri in relazione con i livelli di libertà economica, di efficienza istituzionale (in particolare il livello di salute dello Stato di diritto) e di gradimento della democrazia. I risultati non sorprendono chi abbia un minimo di familiarità con il pensiero di certi illuministi, primi fra tutti i Padri Fondatori della democrazia statunitense, o frequenti la letteratura più recente nei campi della psicologia sociale e cognitiva o della neuroeconomia e dell’economia evoluzionistica. Stupisce che la politica non ne sia informata e non ne abbia tratte le conseguenze. Infatti, tutti gli studi mostrano che nei Paesi dove le performance scolastiche misurate attraverso i test attitudinali sono più elevate e dove si investe per garantire la presenza di una consistente smart fraction, si registrano i livelli più alti di efficienza istituzionale, di funzionamento meritocratico, di libertà economica e di reddito pro capite.
Insomma, cultura è potenza ed investire in conoscenza è strategico per una Nazione che voglia essere forte, competitiva, libera e prospera. Direi di più. E’ indispensabile per un Paese che, nel XXI secolo, voglia essere realmente libero.
In effetti il sospetto mi era venuto già da un po’ di tempo…