Riprendo un articolo di Federico Fubini sul Corriere della Sera di oggi:
(…) Non sarebbe un problema, se noi europei non avessimo appunto una mentalità elvetica. Invece ci comportiamo come un piccolo Paese che dipende dai suoi clienti esteri e – essendo la seconda economia al mondo – abbiamo un livello di consumi interni, fatte le proporzioni, risibile rispetto alla Cina, agli Stati Uniti e inferiore persino al Giappone. Accettiamo il nostro declino demografico come se fosse una fatalità ineluttabile. Lo stesso pensare in piccolo si nota nella corsa alle tecnologie.
In nome della «sovranità strategica» ora l’Europa ha deciso di investire decine di miliardi nei microchip o nel cloud, settori nei quali abbiamo già un ritardo incolmabile sugli Stati Uniti o sull’Asia: ma quando noi saremo dove sono loro oggi, loro saranno di nuovo più avanti. Non osiamo invece affrontare con la stessa determinazione il rischio dei settori meno esplorati, che i nostri concorrenti globali non presidiano già. L’informatica quantistica (il «quantum computing») trasformerà in modo radicale la capacità di calcolo dei computer e la sicurezza delle reti; l’uso dell’intelligenza artificiale e l’analisi dei dati promette una rivoluzione nei servizi sanitari. Su questi territori del futuro l’Europa avrebbe l’opportunità di lanciarsi per essere leader nel mondo, non sapendo esattamente cosa scoprirà e fino a dove arriverà. Ma non ci stiamo provando.
Paradossalmente, non vogliamo esplorare queste frontiere proprio perché non sono già conosciute. In fondo siamo noi, cittadini ed elettori, che preferiamo il piccolo mondo antico di ieri illudendoci che magari ce la caviamo. La pandemia non sembra averci insegnato che le considerazioni di carattere strategico e la geopolitica a volte, letteralmente, decidono delle nostre vite. Vorremmo essere piccoli, elvetici. Invece nel mondo che si prepara rischiamo di essere un elefante che cerca di sfuggire ai bracconieri nascondendosi dietro un albero.