L'intervista di Start Magazine a Carlo Jean:
Uno dei motivi dietro al ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan è stata la necessità di concentrare tempo e risorse nella sfida alla Cina. Generale, l’Afghanistan ha ancora un valore strategico per gli Stati Uniti?
Il valore strategico di un certo asset dipende anche dal costo che si paga per averlo. L’opinione pubblica americana era stanca di questo impegno di cui non vedeva la fine, oltre che pochi risultati. Di conseguenza, già Donald Trump aveva deciso il ritiro dall’Afghanistan e ha cercato di realizzare un ritiro soft attraverso un negoziato con i talebani, aperto a Doha dall’allora segretario di Stato Mike Pompeo.
L’apertura di un negoziato di pace con un’organizzazione estremista come i talebani rispondeva a calcoli strategici o è stato il frutto delle dinamiche interne americane?
Indubbiamente la politica estera dipende sempre dalla politica interna. E infatti Joe Biden non ha fatto altro che seguire la tendenza delineata dall’amministrazione Trump, anche se sicuramente sarà stato sorpreso dalla rapidità del successo dei talebani. Infatti ha dovuto schierare nuove truppe a protezione del personale americano evacuato da Kabul.
L’uscita rovinosa dall’Afghanistan ha danneggiato la credibilità internazionale degli Stati Uniti?
A mio avviso la credibilità degli Stati Uniti ha subìto un duro colpo. Ma il ritiro era previsto.
Fino a poche settimane fa Biden si diceva fiducioso delle capacità dell’esercito afghano. Lo era davvero, secondo lei, o sapeva a cosa si stava andando incontro?
Sicuramente le forze armate americane, specie quelle sul campo, conoscevano bene la realtà dell’esercito afghano: un esercito non combatte perché ha i fucili o i mezzi, ma combatte se possiede uno spirito patriottico. Le forze armate americane si aspettavano questo collasso. Ma la valutazione non era del tutto condivisa a livello dell’intelligence e della politica, per cui ci si illudeva che l’esercito afghano avrebbe potuto resistere più a lungo. Non ci si aspettava che la motivazione dei soldati fosse minata al punto tale da spingerli a non combattere, a cedere le armi o a venderle ai talebani.
E ora che cosa succederà?
Adesso bisognerà vedere se la guerra continuerà sotto forma di guerra civile o tribale come già nel 2001, quando i talebani non è che avessero il controllo completo del territorio afghano, specie nelle zone settentrionali dove era attiva l’Alleanza del nord, che si opponeva al governo talebano di Kabul.
Gli Stati Uniti hanno speso decine di miliardi di dollari per addestrare l’esercito afghano: senza grossi risultati, sembrerebbe, vista la disfatta delle forze armate. Cos’è andato storto? C’era un muro di corruzione che Washington non è riuscito a rompere?
C’è sicuramente un muro di corruzione e di inefficienza, ma alla base del collasso c’è soprattutto un concetto sbagliato. E cioè il concetto che l’Afghanistan possa essere uno stato-nazione, quando invece è composto da tribù e da clan in ostilità millenaria tra di loro. Nonostante tutto il sostegno militare e logistico ricevuto, alla prova dei fatti l’esercito è crollato perché non esisteva uno spirito che potesse dare combattività ai soldati.
Come finirà?
Ma non è detto che in Afghanistan i giochi siano del tutto fatti: le etnie e le tribù resistono, le rivalità millenarie continuano. I tagiki e gli hazara non vorranno essere dominati da pashtun talebani, che difficilmente riusciranno a dominare un paese frammentato come l’Afghanistan che conta 33 milioni di abitanti. I tagiki sono il 24 per cento, gli hazara il 15 per cento, gli uzbeki il 9; i pashtun sono il 36 per cento anche se ultimamente sembrano aumentati di numero per via dei flussi provenienti dal Pakistan.
L’emirato talebano del mullah Omar fu sostenuto dal Pakistan, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Oggi chi finanzia i talebani? E quali sono gli Stati che guardano al regime talebano, se non con favore, almeno con non troppo dispiacere?
Sicuramente, se questi vent’anni di guerra non hanno cambiato l’Afghanistan, è cambiata la situazione mondiale. I talebani non hanno il sostegno dell’Arabia Saudita, ma hanno il supporto – anche se ambiguo – dell’Iran, dovuto al fatto che Teheran vedeva con preoccupazione la presenza di truppe americane alla sua frontiera orientale. L’evacuazione degli americani dall’Afghanistan è considerato un fatto positivo per l’Iran.
E la Russia?
I talebani erano fortemente avversati dalla Russia prima del 2001: infatti la Russia, l’Iran e l’India sostenevano l’Alleanza del nord di Massoud, il Leone del Panjshir. Attualmente, invece, la Russia è abbastanza in grosse difficoltà: è rimasta spiazzata, pensava a un governo di transizione in Afghanistan mentre i talebani non ne vogliono sentir parlare.
A differenza degli Stati Uniti e dei loro alleati, la Russia e la Cina non hanno evacuato le proprie ambasciate a Kabul. Che cosa pensa Pechino dei talebani?
La Cina ha avuto contatti di alto livello con i talebani: il ministro degli Esteri cinese si è incontrato con il negoziatore talebano a Doha, Baradar, e sicuramente avrà detto ai talebani che Pechino è disponibile a sostenerli. L’eliminazione della presenza americana in Afghanistan dà alla Cina il grosso vantaggio di diminuire l’influenza di Washington in Asia centrale. E poi la Cina punta a inglobare l’Afghanistan nella Belt and Road Initiative, la Nuova via della seta: si parla già di una specie di autostrada tra Kabul e Peshawar, in Pakistan. L’Afghanistan è un’opportunità economicamente interessante per la Cina: secondo lo U.S. Geological Survey il paese possiede grandi quantità di minerali rari, rame e petrolio, su cui Pechino ha sicuramente messo occhio. Ma questo aspetto economico è inferiore a quello strategico e geopolitico, legato alla possibilità di diminuire l’influenza americana in Asia centrale e lasciare solamente la Russia di fronte a sé.
Cioè?
La Russia ha grosse difficoltà a contrastare la penetrazione cinese in Asia centrale, una regione storicamente sotto l’influenza di Mosca, perché non ha le capacità economiche per farlo. Non è comunque da escludere che, in futuro, possa verificarsi un attrito tra Russia e Cina proprio a causa dei talebani, che rischiano di destabilizzare l’Uzbekistan e il Tagikistan, dove la Russia è presente in forze militari. Finora Mosca ha sostenuto l’antiterrorismo tagiko e uzbeko per contrastare le infiltrazioni jihadiste in Asia centrale.
Prima spiegava che in passato i talebani non sono riusciti a imporsi completamente su tutte le etnie che abitano l’Afghanistan. Se il Paese divenisse fonte di instabilità, pensa che la Cina – visti gli interessi economici-strategici – si ritroverebbe costretta a intervenire, violando il suo principio di non-ingerenza?
La Cina è contro l’ingerenza degli altri, non contro la propria. La Belt and Road Initiative è un’iniziativa che gioca sull’economia come strumento per l’espansione geopolitica. A mio parere, l’unico timore della Cina è il fatto che assieme ai talebani – in particolare con il figlio del mullah Omar – militano diversi uiguri fuggiti dallo Xinjiang e collegati alla resistenza uigura contro il regime di Pechino. Ma la Cina si sente forte, e lo è, perché a differenza dell’Occidente non usa le buone maniere quando si tratta di antiterrorismo e di controllo sociale: si pensi, nello Xinjiang, ai centri di rieducazione, ai campi di lavoro forzato, al trasferimento di masse di cinesi han per mutare le proporzioni etniche della regione a danno degli uiguri.