Sulla strage a Dacca, capitale del Bangladesh, il resoconto di Fiorenza Sarzanini e Alessandra Muglia (Corriere.it). Qui i profili dei nostri connazionali uccisi.
Qui, invece, l'analisi di Lorenzo Cremonesi sull'evoluzione e l'approccio strategico dell'ISIS (Corriere.it):
È uno Stato Islamico sempre più «qaedizzato» quello che vediamo crescere, agire e colpire con furia aggressiva e crudele nelle ultime settimane. Alcuni osservatori leggono nella ferocia con cui si accanisce contro civili innocenti una sorta di estremo singulto, l’agonia della disperazione prima della fine. In realtà, l’Isis cambia pelle, si rinnova e rinasce con vesti nuove. È nella logica di ogni movimento ed ideologia estremista, è sempre stato così: se non si adatta al mutare delle circostanze perde seguaci, perde spinta propulsiva e muore. Siamo ormai lontani dall’universo del giugno 2014, quando il neo Califfo Abu Bakr Al Baghdadi pronunciava arrogante il sermone della sua auto-presentazione al mondo dalla moschea appena occupata nel cuore di Mosul. Oggi i suoi adepti agiscono nell’ombra, si muovono nella clandestinità dei terrorismi più tradizionali.
Ma occorre non farsi illusioni: il Califfato resta più vivo e aggressivo che mai. Trova nuove strade per manifestare la sua aspirazione all’attacco totale contro l’Occidente e contro i suoi oppositori, compresi i regimi e Stati Islamici. Il fatto è evidente: quella che era la sua novità, ovvero la dimensione semistatuale in Iraq e Siria, appare messa in dubbio, addirittura in crisi totale. Il Califfato perde in Siria, dove la sua capitale Raqqa è oggi circondata da milizie curde, oltre all’esercito fedele a Bashar Assad e dalle formazioni di guerriglieri sunniti appoggiati dagli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e alcuni tra i maggiori Paesi del Golfo. In Iraq, dopo Tikrit e Ramadi, negli ultimi giorni ha perso il controllo su Falluja, la città della storica resistenza sunnita contro l’invasione americana del 2003. Una sconfitta clamorosa. Sino ad un mese fa gli stessi comandi americani affermavano dietro le quinte che sarebbero stati necessari ancora mesi di battaglie. E invece alla fine i militanti jihadisti si sono dati alla fuga, disperdendosi nel deserto e verso i grandi laghi salati di Al Anbar. A Bagdad segnalano che quasi 300 dei loro potrebbero essere stati uccisi negli ultimi tre giorni. Lo stesso vale per Sirte. Doveva essere la capitale di Isis in Libia, da cui il movimento mirava a minacciare Misurata e preparava le cellule per colpire Tripoli. E invece è ormai solo una questione di poco tempo. Magari una settimana, forse poco più. Ma tra pochissimo Sirte sarà la Fort Alamo di Isis in Libia. Le milizie di Misurata e quelle fedeli al governo di Tripoli promettono che non faranno prigionieri. A Sirte il collasso di Isis equivarrà ad un grande bagno di sangue. Isis potrebbe perdere in un colpo solo tra i 300 e 700 tra i suoi quadri combattenti migliori.
Da qui la sua «qaedizzazione», Isis si rilancia come movimento terroristico classico, torna a somigliare alla Al Qaeda di Osama Bin Laden prima maniera. Un gruppo di militanti fanatici dispersi nel mondo globalizzato del terzo millennio. Il fatto che sia meno Stato organizzato su di un territorio ben definito e invece più movimento lo rende tra l’altro più difficile da colpire. Un fenomeno già evidente in Afghanistan, dove le sue cellule sono in concorrenza con i talebani e si muovono liberamente in Pakistan, sino all’India. Si annacqua anche la sua tradizionale determinazione a colpire in Europa, definita nei suoi documenti come «ventre molle» del fronte occidentale. L’attentato all’aeroporto di Istanbul a inizio settimana e adesso questo in Bangladesh ne sono la prova evidente. Sono la manifestazione della svolta verso l’internazionalismo più disincantato. L’Isis si fa più fluido, opera dove meno è atteso, colpisce dove riesce a causare il maggior numero di vittime. Non ci sono più territori privilegiati per le sue operazioni. Il mondo intero diventa potenziale obiettivo dei suoi attentati e dunque sarà necessaria maggior cooperazione internazionale per batterlo sul campo.
In altri termini, anche l'ISIS, come prima di lui gli altri gruppi jihadisti, non essendo riusciti ad abbattere il "nemico vicino" si passa ad attaccare il "nemico lontano".