Un’interessante lettura dell’attuale conflitto iraqeno pubblicata da Linkiesta.
Secondo “Mossadeq”, autore della breve analisi, dietro l’attuale caos iraqeno ci sarebbe la mano dei sauditi i quali, nel più ampio contesto di una storica competizione con l’Iran e gli sciiti, punterebbero a a destabilizzare l’Iraq per impedirnee la “messa a regime” della produzione petrolifera.
Ad inizio 2014, esaminavamo la “guerra petrolifera” che il fronte sciita di Iran e Iraq si accingeva a muovere al nemico, l’Arabia Saudita, leader dell’Opec e punto di riferimento del fronte sunnita nello scontro in atto in Medio Oriente. I loro piani aggressivi, che nei prossimi anni puntano ad accrescere notevolmente la produzione ed esportazione di idrocarburi, hanno una finalità economica, ma soprattutto quella di indebolire l’influenza araba sul piano geopolitico. La “guerra petrolifera” degli sciiti potrebbe rappresentare un game changer nello scontro con i sunniti per la supremazia in Medio Oriente.
Tutti gli eventi chiave degli ultimi anni in Medio Oriente, sia a livello energetico che a livello strategico-militare, sono in qualche modo riconducibili allo scontro tra persiani e sauditi. Se nel passato gli ultimi hanno potuto contare su una notevole capacità di influenzare a loro favore la posizione delle potenze occidentali sulle questioni dell’area, i primi hanno però mostrato una capacità di resistenza non comune. Lo scenario sembra però in evoluzione. Gli iraniani sono particolarmente attivi e dinamici e sembrano puntare a scompaginare il vecchio equilibrio che li ha mantenuti nell’isolamento per anni.
Dopo decenni di isolamento e guerre che hanno limitato le prospettive di sviluppo di Iran e Iraq, l’aumento delle esportazioni di idrocarburi può rappresentare per costoro uno strumento essenziale per tornare a crescere. La leva petrolifera rappresenta però un’arma strategica, in passato utilizzata spesso anche come strumento alternativo alle guerre tradizionali. I sauditi, ad esempio, in passato hanno innescato un crollo dei prezzi nel mercato allo scopo di indebolire Ahmadinejad e sottrarre risorse alla sua aggressiva politica esterna. Se nei prossimi anni Iran e Irak riuscissero effettivamente a realizzare maggiori esportazioni di gas e soprattutto petrolio, ciò si rivelerebbe verosimilmente un gioco a somma zero a svantaggio dell’Arabia Saudita, in quanto essa probabilmente sarebbe costretta ridurre le proprie.Nel nuovo scenario energetico di lungo termine, caratterizzato da eccesso di offerta per la scoperta di nuove tecnologie non convenzionali (tight oil e shale gas), per l’emergere di nuove potenze al di fuori dell’Opec (es. Brasile e Kazhakistan) e per un tasso di crescita della domanda in calo, rubare quote di mercato importanti, per l’Iran si tradurrebbe automaticamente in un indebolimento dell’Arabia Saudita, sia sul fronte della stabilità interna e sia su quello esterno, e dunque in un rafforzamento nei suoi confronti. Per entrambi i Paesi, infatti, i ricavi derivanti dall’export petrolifero sostengono l’ordine sociale interno, dando linfa al sistema di welfare, e la loro influenza geopolitica esterna, finanziando i movimenti di riferimento nelle principali aree di instabilità, dove si giocano le partite più importanti del Medio Oriente (es. Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina e lo stesso Isis in Siria e Iraq).
Non va trascurato neanche il fatto che, in una simile situazione, i piani iraniani e iracheni accelererebbero il venir meno dell’interesse strategico degli Stati Uniti per la capacità produttiva in eccesso dell’Arabia Saudita, storicamente utilizzata per garantire la stabilità dei prezzi in caso di shock di offerta e in futuro sempre meno essenziale per il probabile scenario di eccesso di offerta. L’interesse degli Usa per l’uso di capacità ha rappresentato la fonte primaria dell’influenza dei sauditi sulle potenze occidentali e ne ha garantito una “rendita geopolitica” in Medio Oriente, ottenuta grazie alla copertura americana.
La reazione saudita non sembra però essersi fatta attendere troppo. Gli ultimi eventi in Iraq potrebbero essere letti in questa chiave, in quanto dietro l’avanzata dell’Isis si intravede la regia e il sostegno dell’Arabia Saudita. Un obiettivo potrebbe essere anche quello di impedire, o comunque rallentare, l’aumento della produzione esportata di greggio iracheno.
L’autore traccia due possibili scenari:
Il futuro della crisi irachena potrebbe prendere direzioni molto diverse. Sarà interessante osservare come evolverà la situazione nei prossimi mesi. L’instabilità potrà ulteriormente radicalizzarsi o al contrario ridimensionarsi. Da ciò dipenderà anche l’evoluzione della “guerra petrolifera” che è forse l’aspetto più interessante della contesa tra Iran sciita e Arabia Saudita sunnita per il predominio in Medio Oriente.
Un primo scenario vede l’innalzamento e il mantenimento nel medio termine di un livello elevato di instabilità in Iraq, a cui puntano i sauditi (scommettendo probabilmente su una passività degli Usa). Esso potrebbe caUsare, come si è visto anche nel sud, un’interruzione importante della produzione attuale e il forte ritardo della crescita futura rispetto ai target. Nel primo caso il prezzo del petrolio, secondo stime autorevoli, potrebbe arrivare intorno a 130 dollari/barile (dai 105-110 prima della crisi) e per contenere la sua crescita sarebbe necessario ristabilire il livello di offerta, facendo ricorso alla capacità non utilizzata saudita (in combinazione con l’IEA). Riad dimostrerebbe così che la stabilità del mercato ha ancora bisogno del suo intervento, e gli Usa potrebbero ritenere necessario conservare ancora per qualche tempo la partnership con i sauditi. Nel caso di ritardo dei piani di sviluppo della produzione futura, e di una eventuale escalation anche su quelli iraniani, i sauditi conterrebbero l’evolvere di uno scenario di eccesso di offerta, quantomeno isolando ciò che avviene all’interno dell’OPEC. Conseguentemente la riserva produttiva saudita potrebbe essere mantenuta a livelli economicamente sostenibili ma soprattutto conservare per qualche tempo ancora il valore “strategico”, che nel passato le ha garantito la preferenza degli Usa e il predominio geopolitico in Medio Oriente.Uno scenario alternativo a quello precedente prevede invece un forte impegno congiunto di Usa e Iran con l’obiettivo di ridurre l’instabilità in Iraq, con la probabile accelerazione anche dei negoziati sul nucleare e la fine delle sanzioni economiche. In un simile contesto, sarebbero incentivati gli investimenti iraniani in nuova capacità produttiva di idrocarburi, e parallelamente potrebbero riprendere quelli iracheni messi a repentaglio dall’instabilità nel Paese, innescando la transizione verso un mercato del petrolio dove l’eccesso di capacità produttiva dell’Arabia Saudita non sarebbe più essenziale per gestire eventuali shock di offerta, con il conseguente ridimensionamento arabo all’interno dell’OPEC e nell’arena geopolitica del Medio Oriente. Curiosamente, rispetto a quanto accaduto in passato negli anni ’70 quando l’Arabia Saudita sostituì l’Iran dello Scià nel ruolo di leader dell’OPEC e di alleato preferenziale degli Usa (passaggio descritto molto bene nel libro di Andrew Scott Cooper The Oil Kings – How the US, Iran and Saudi Arabia Changed the Balance of Power in the Middle East), i due Paesi reciterebbero lo stesso copione ma a ruoli invertiti.