In attesa del voto del 23 giugno, il punto di vista dei Diavoli:
Mancano ancora due settimane al 23 giugno, il giorno in cui – via referendum – il Regno Unito emetterà il suo verdetto sulla Brexit ma la consultazione popolare che deciderà sulla permanenza dell’UK nell’Unione Europea ha già monopolizzato tutti i principali media inglesi. Secondo ilReuters Institute for the Study of Journalism, infatti, ogni quotidiano propone in media almeno 10 articoli al giorno sul tema, la maggioranza dei quali si schiera a favore dell’uscita (su un campione di oltre mille articoli pubblicati tra il mese di marzo e quello di aprile, il 45% era a trazione euroscettica contro un 27% pro Unione e un 28% che manteneva una posizione neutrale). Dopo aver agitato lo spettro della scissione per raggiungere un accordo vantaggioso con Bruxelles, il governo Cameron si ritrova ora spaccato perfettamente in due con l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson – capofila del fronte conservatore anti-Ue – che insidia la poltrona del primo ministro, il quale, ça va sans dire, pagherebbe molto cara una vittoria del “sì” in termini politici.
Il fatto certo è che, almeno stando ai sondaggi, lo schieramento anti europeista continua a crescere e che gli esiti della chiamata alle urne non sono mai stati più incerti. Tanto che, a livello internazionale, molti governi esteri iniziano a calcolare le possibili conseguenze di una Brexit.Secondo i dati di un’indagine condotta da S&P Global Ratings, tra i venti Paesi più esposti al rischio di un’uscita del Regno Unito figurerebbero Irlanda, Lussemburgo, Malta, Cipro e le nazioni tradizionalmente più deboli da un punto di vista commerciale e migratorio. Della lista farebbero parte anche Canada e Svizzera, nonostante si tratti di due Stati non membri, fatto che non deve stupire visto che quella dell’UK è la quinta economia al mondo e dunque è perfettamente comprensibile che la chiusura della piazza di Londra avrebbe ripercussioni su larga scala.
E infatti anche il premio Nobel Paul Krugman, dalle colonne del suo blog sul New York Times, lancia l’allarme: “Supponiamo che la Grecia esploda ancora una volta, o che gli elettori britannici votino a favore di un’uscita dall’Unione europea, o che l’economia cinese precipiti nell’abisso, o altro del genere. Che cosa potrebbero o sarebbero disposti a fare i policymaker europei per contrastare un simile sconvolgimento? Nessuno sembra averne la più pallida idea. Il fatto è che non è poi così difficile vedere ciò che l’Europa dovrebbe fare per contribuire a curare la sua malattia cronica”. Secondo l’economista il Vecchio Continente non è preparato per far fronte ad un nuovo shock: “Mentre le iniezioni monetarie hanno contribuito a contenere le calamità dell’Europa—vengono i brividi a pensare come sarebbero potute andare male le cose senza la leadership di Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea — esse non hanno portato a niente di comparabile a una vera e propria cura. In particolare, malgrado gli sforzi della Bce, l’inflazione di fondo sembra immobile, ben sotto l’obbiettivo ufficiale del 2 per cento. Nel frattempo, in Europa la disoccupazione è ancora a livelli tali da infliggere danni enormi sul piano umano, sociale e politico”.