Dal Sole 24ore, il parere di Vittorio Emanuele Parsi:
Come se non bastasse il caos che ormai regna sovrano in Libia, anche nella “coalition of willing” che dovrebbe collaborare con il costituendo (?) governo di unità nazionale libico, sembra emergere una certa confusione.
Data continuamente per imminente, l’operazione congiunta continua a subire rinvii. Com’è stato opportunamente ribadito dal governo italiano, in assenza di una richiesta ufficiale di assistenza da parte delle autorità libiche mancherebbero i presupposti giuridici e politici per un intervento esterno. Ma i fatti di questi giorni, a cominciare dall’irrituale ma non certo errabonda intervista rilasciata al “Corriere” dall’ambasciatore americano in Italia e dalle reazioni politiche che ha provocato a Roma, attestano che il ritardo nella formazione del nuovo Esecutivo unitario libico, tutto sommato, copre un problema ben più consistente: ovvero, che senza un accordo effettivo, trasparente e non reticente da parte dei Paesi disponibili a farne parte, la missione è destinata a non vedere neppure la luce o al più clamoroso fallimento.
La «totale identità di vedute», ribadita appena qualche giorno fa dal nostro governo nei confronti dell’Amministrazione americana, anche tra i tanti partner della coalizione esiste solo sulla carta e a livello di dichiarazioni di principio, se non astratte. La realtà è che ognuno dei principali attori sa ciò che è disposto a fare e sa ancora più chiaramente che cosa non intende fare: ma siamo ancora lontanissimi dallo sviluppo di una “grande strategia” coerente e condivisa da tutti.
Così ad esempio, americani e italiani condividono l’opposizione a mettere i propri boots on the ground e l’aspirazione a leading from behind. Ma sono entrambi consapevoli che, in assenza di truppe sul terreno, sarà molto difficile avere ragione del nemico. L’entusiastico sostegno americano alla leadership italiana delle operazioni in Libia rivela così una componente “equivocata” ma che gli americani davano per implicita o hanno inteso rendere esplicita a mano a mano che si palesavano i limiti del nostro possibile coinvolgimento: se l’Italia desidera la leadership – anche in virtù dei suoi interessi e della sua conoscenza della situazione in Libia – deve di necessità svolgere un ruolo maggiore nella missione anche dal punto di vista militare.
L’Italia, dal canto suo, continua a sottolineare l’aspetto “politico” dell’intera operazione e, comunque, non intende assumersi il rischio di ritrovarsi impantanata in Libia con l’eventualità che un’America meno direttamente invischiata e in piena campagna presidenziale possa decidersi di sfilarsi per ragioni di politica interna, lasciandoci da soli, insieme agli alleati europei e mediterranei, a gestire una situazione evidentemente ben superiore alle nostre capacità. Degli alleati ciò che più colpisce è come già ora, prima che la missione prenda avvio, ognuno si stia muovendo in ordine sparso e nella logica di rafforzare la propria posizione e i propri interessi. Vale per i francesi e per gli inglesi, con le operazioni svolte dalle rispettive forze speciali, che comunque vada costituiscono dei “fatti compiuti”, quindi dei vincoli, con i quali la coalizione (e la sua leadership) dovrà fare i conti. Ma vale anche per gli egiziani, che stanno rafforzando la posizione del generale Haftar, e in tal senso complicando la strada per la costituzione di quel governo di unità nazionale (e di compromesso) senza il quale ogni possibilità di intervento internazionale rischia di sfumare o cambiare completamente di segno.
Tutto questo spiega la prudenza renziana, oltretutto legata anche allo scarso sostegno interno (popolare e politico) all’iniziativa libica. Resta il fatto che senza un impegno anche militare più sostanzioso da parte di tutti – doverosamente associato allo sforzo politico diplomatico nei confronti non tanto dei governi di Tripoli e Tobruk ma dei loro protettori politici ad Ankara e Doha e al Cairo e Riad – la missione non ha nessuna possibilità di successo. Anche se domani stesso un governo di salvezza nazionale si costituisse in Libia, la sua effettività sarebbe molto relativa, i problemi e le divisioni resterebbero tutte sul terreno e gran parte dello sforzo per consentire la stabilizzazione della Libia rimarrebbe sulle nostre spalle.
Bisogna ribadirlo con molta fermezza: la missione in Libia si configura come “una seconda Bosnia”, per costo, coinvolgimento e durata ma in un’area infinitamente più instabile e pericolosa. Ciò su cui occorre riflettere non è quindi se esistano miracolose ipotesi alternative a un massiccio, prolungato e rischioso intervento insieme politico e militare ma se, quanto e fino a quando potremmo permetterci di non intervenire. E decidere di conseguenza.