Un articolo di Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica di Milano, illustra bene il rafforzamento politico-diplomatico di Mosca nell’area medio-orientale. Un consolidamento che sta avvenendo grazie alla involontaria sponsorship dell’amministrazione Obama la cui incapacità di articolare una visione unitaria ha aperto un vuoto geopolitico all’interno del quale Putin ha deciso di operare.
Dal Sole 24 ore di oggi:
E così la grande coalizione internazionale contro il “nuovo nazismo” evocata, sia pure in forme diverse, tanto da Barack Obama quanto da Vladimir Putin probabilmente si farà.
La notizia vera, però, non è quella battuta nelle ultime ore dalle agenzie dell’adesione di Nigeria, Malesia e Tunisia all’inedita “coalition of the willing” (ma per favore non chiamatela così), bensì il fatto che da ieri il trono di Assad è un po’ più solido.
Il braccio di ferro tra Mosca e Washington sul ruolo del tiranno di Damasco è stato vinto dai russi. La loro posizione, per quanto cinica potesse sembrare, è risultata più coerente e “realista” di quella americana. La Casa Bianca, pur riconoscendo che il contributo lealista fosse fondamentale per arrestare l’avanzata di Daesh (acronimo arabo dell’Isis, ndr), pretendeva che Assad si levasse di mezzo una volta conseguita la vittoria. Il Cremlino invece ha sempre sostenuto che Assad rappresentasse il solo valido alleato contro al-Baghdadi e che come tale andasse trattato. In effetti, Putin è riuscito a vendere l’idea di Assad come “male minore” ben prima che Obama fosse costretto a comprarla: nelle settimane scorse Ankara, Canberra, Berlino e Londra si sono spostate su una posizione possibilista circa una Siria ancora governata da Assad, nella sostanza premiando l’interventismo russo.
Il paradosso è che quello considerato come il male minore è responsabile (secondo i dati forniti dalle più accreditate agenzie internazionali) della stragrande maggioranza delle vittime civili uccise in quasi quattro anni di guerra. Rimane tutt’altro che chiaro infatti se la popolazione siriana e i gruppi di insorgenti non legati a Jabat al-Nusra o a Daesh accetteranno questo stato di cose; se è difficile che nell’immediato ciò possa avere una qualche influenza, quasi certamente potrebbe averla nel medio periodo, in termini di stabilità della futura Siria. Ma quello che è vero in Siria, assume una dimensione opposta in chiave regionale.
In questo momento le priorità della comunità internazionale sono altre: bloccare l’avanzata di Daesh, che non solo sta provocando un esodo di dimensioni incontrollabili nella regione e verso l’Europa, ma che rischia di causare un vuoto di potere intollerabile in una delle aree più instabili del Medio Oriente e contemporaneamente alimenta un nuovo terrorismo di matrice islamista in Occidente tra i cittadini immigrati di seconda o terza generazione. Lottare contro Daesh, negli intendimenti dei leader occidentali e di Putin, significa innanzitutto porre fine al proselitismo violento che la sopravvivenza dello “Stato islamico” alimenta ogni giorno. Basti pensare, in tal senso, agli attentati compiuti a Londra, Parigi o Copenaghen negli ultimi due anni e al flusso continuo di combattenti stranieri che ingrossano le fila di al Baghdadi, denunciato ancora ieri dalle Nazioni Unite.
È proprio la preoccupazione di un futuro incerto e peggiore che d’altronde sta spingendo a un’oggettiva collaborazione gli Stati Uniti e l’Iran, da un lato, la Russia e Israele dall’altro. Il recente viaggio di Benjamin Netanyahu a Mosca per ricercare un’intesa con Putin che eviti il rischio di incidenti tra le forze aeree di Israele e quelle russe, entrambe impegnate in Siria, ha segnato un importante riconoscimento del ruolo del Cremlino nella regione. Allo stesso modo, il coinvolgimento russo nella crisi siriana ha oggettivamente avvicinato Teheran e Mosca che condividono il sostegno ad Assad e reso la posizione americana in Medio Oriente sempre più contendibile.
In uno scenario simile, è difficile comprendere come Italia e Germania possano escludere di dare il proprio contributo militare alla lotta contro Daesh, e limitarsi al pur importante contrasto sul piano finanziario e informatico , quando è proprio di aerei se non di soldati che la coalizione ha più bisogno. Fornire peacekeepers in Libano, come l’Italia fa in modo egregio e cospicuo da anni, senza combattere contro lo Stato Islamico non è sufficiente: perché ogni giorno che al-Baghdadi rimane in sella aumenta i rischi che i suoi seguaci possano infiltrarsi in Libano, mettendo a repentaglio la vita dei nostri caschi blu.