Un vero tema strategico. Poco o nulla compreso da Paesi come il nostro che sono in declino demografico ed in avanzata emorragia di capitale umano.
Dal Corriere della Sera:
[…] Nel 1961, il muro di Berlino fu costruito con una motivazione ufficiale: si doveva bloccare il deflusso dalla Germania Est dei giovani laureati che, asserì il regime, volevano andare a Ovest solo per guadagnare di più. Chi desiderava andarsene poteva farlo (in teoria), prima però doveva rimborsare lo Stato per l’investimento in istruzione fatto su di lui.
Oggi paradossalmente il filo spinato ungherese ha rischiato di generare l’effetto opposto. Corre infatti un secondo binario, più sottotraccia, nel confronto fra i Paesi europei, adesso che la Germania si prepara ad accogliere 800 mila rifugiati e l’Italia ne ha già 118 mila. Non è di oggi, ma adesso appare sempre più evidente. I Paesi europei non competono solo per quale fra loro riuscirà ad accogliere meno rifugiati, o al contrario a mostrarsi più solidale. In modo più implicito, ciascuno vorrebbe quasi solo i migranti che gli servono. I migliori, in termini produttivi: i professionisti o i professionali, i laureati, coloro che portano con sé un investimento in istruzione di due decenni di studi e centinaia di migliaia di euro. Quando varcano i confini centinaia di migliaia di persone, sono cifre macroeconomiche.
Secondo le stime dell’Ocse, il centro studi di Parigi, il «costo di produzione» di un laureato in Italia è di circa 165 mila euro: ciò include gli stipendi degli insegnanti dalla scuola materna alla fine dell’università, ma non ancora la manutenzione degli edifici scolastici. In Germania e in Francia gli oneri per lo Stato sono più vicini ai 200 mila euro per ciascun giovane che si laurea. È l’infrastruttura umana di un Paese, un investimento da decine di miliardi di euro per ciascuna generazione. E l’Italia o la Germania hanno bisogno di rinnovarlo, perché nel 2050 un terzo delle popolazioni di oggi avranno oltre 65 anni e oggi le nuove nascite sono su minimi pluri-secolari.
È qui che sui rifugiati dalla Siria e dall’Eritrea, o sui migranti della Nigeria, si consuma una sfida che nessun vertice di Bruxelles può dirimere. Perché gli istruiti, i laureati e i tecnicamente abili vanno semplicemente dove vive altra gente come loro. Più sviluppata e raffinata è un’economia, meglio riuscirà ad attrarre gli stranieri più capaci e portatori di ricchezza: qualunque sia il colore della loro pelle, il passaporto o lo status giuridico.
Nikola Sander, dell’Istituto demografico di Vienna, ha usato la banca dati di Eurostat (basata sul censimento del 2011) per mostrare un’evidenza: in ogni Paese, regione e città d’Europa, la proporzione di stranieri laureati (sul totale degli stranieri) è curiosamente allineata alla proporzione dei «nativi» laureati (sul totale dei nativi). In Sicilia per esempio solo l’11% dei locali ha una laurea e la popolazione di stranieri con una laurea è all’11,7%. A Berlino il rapporto è 35% dei «nativi» contro 33,8% degli stranieri. A Parigi il 27,6% contro il 28,6%. In Lombardia il 15,9% contro il 13,2%. E così via, anche per gli Stati: l’Italia ha il 12% di laureati nel Paese e il 14% di laureati fra gli stranieri, Germania e Francia hanno rispettivamente il 26% e il 22% per entrambe le categorie.
Non basta mostrarsi spietati o umani con gli altri, per gestire al meglio i flussi dall’estero di questo secolo. Bisogna anche migliorare se stessi.