… nell’analisi di Carlo Jean per Formiche.net:
[…] La futura mappa geopolitica vedrà forse la scomparsa di taluni Stati. I conflitti in Siria, Iraq e Libano hanno distrutto la loro coesione. La diminuzione dell’influenza occidentale ne ha aumentato la frammentazione. Non vi è forza che possa riportare sotto l’autorità centrale degli Stati i vari gruppi in lotta fra loro. Le violenze sono state troppe per sperare in riconciliazioni nazionali. Numerosi conflitti domineranno il futuro del Medio Oriente.
E allora? Molti sono portati a ridurre la dinamica geopolitica della regione allo scontro fra sunniti e sciiti, al fallimento della primavera araba e all’incapacità degli Stati creati dalla Gran Bretagna e dalla Francia, alla fine del primo conflitto mondiale, di trasformarsi in Stati nazionali. Sono rimasti tribali, con la lealtà della popolazione che va al gruppo sub-nazionale (clanico, etnico e religioso) di appartenenza. Con l’indebolimento degli Stati, sono emerse le forze profonde esistenti nelle varie società e i loro conflitti di potere.
Il contrasto fra sciiti e sunniti non è di natura teologica, anche se il clero sciita ha sempre posseduto un maggiore potere politico rispetto ai dottori della legge sunniti, e se le dinastie del Golfo continuano a sentirsi minacciate dalla rivoluzione di Khomeini. Solo con essa, la differenza fra le due anime dell’Islam esistente da secoli, è divenuta geopoliticamente rilevante. I sauditi – custodi dei luoghi sacri dell’Islam – si sentono sfidati dall’appello all’unità dell’Islam fatto dal regime degli Ayatollah.
Sospettano che Teheran intenda circondarli e acquisire l’egemonia nel Golfo, mobilitando anche le consistenti minoranze sciite della Penisola Arabica. Per reazione hanno accentuato i loro legami con la setta rigorista wahhabita, che già era un pilastro portante della dinastia. L’attacco americano all’Iraq di Saddam Hussein ha eliminato il contrappeso tradizionale all’Iran. Gli squilibri sono stati aumentati dal rapido ritiro delle forze americane dall’Iraq nel 2011 e dal timore delle dinastie del Golfo di un accordo fra gli USA e l’Iran.
I sauditi non temono tanto la “bomba” iraniana, quanto il fatto che, con l’eliminazione delle sanzioni, Teheran potrebbe in poco tempo aumentare il proprio PIL di oltre 100 miliardi di dollari. Potrebbe quindi rafforzare la sua influenza in tutta la penisola arabica, dagli Houthi dello Yemen, all’Hezbollah in Libano e dalla Siria all’Iraq. Per questo la loro lotta contro lo Stato Islamico è limitata dall’interesse di utilizzarlo contro l’Iran e i suoi alleati.
Non si vede via d’uscita a tale situazione di frammentazione. Finito il nazionalismo arabo e scomparso il partito Baath, l’unico fattore di aggregazione rimane l’Islam. Non è sufficiente data la sua divisione in sette contrapposte. La proposta del Califfato era di costituire un impero transfrontaliero e di trasformare l’Islam, nella rigorosa interpretazione datagli da al-Baghdadi, nel paradigma ordinatore della frammentazione tribale. A parte la flessibilità non solo militare ma anche politica dimostrata, le grandi vittorie e l’attrazione che il Califfato esercita, i suoi successi sono proprio dovuti al fatto che propone un modello corrispondente a quanto viene percepito necessario nell’immaginario collettivo di un gran numero di popoli della regione.
La religione è un fattore che serve a creare consenso, a mobilitare le masse e a permettere le guerre per procura fra l’Arabia Saudita e l’Iran, combattute in Iraq, Siria e Libano. E’ probabile che, dopo l’eliminazione dello Stato Islamico, i conflitti in corso continueranno, assumendo sempre più caratteristiche settarie e confessionali. Le dispute religiose saranno sempre più chiaramente semplici foglie di fico per nascondere la loro vera natura, che è di lotta per l’influenza e il potere. Una lotta cioè geopolitica, non teologica.