… vi segnalo una breve riflessione del Prof. Mario Del Pero, docente di Storia ed Istituzioni delle Americhe presso l’Università di Bologna:
[…] Piace molto, a studiosi ed esperti di relazioni internazionali, discettare di grand strategy. Denunciare quelli statisti e politici che ne sono stati sprovvisti; celebrare chi, nella storia, ne ha avuto una e ha agito sulla scorta di essa. Quella storia rivela in realtà come spesso queste grand strategy siano stato poco più di artifizi retorici: visioni del mondo ad alto e irrealistico contenuto ideologico, non di rado funzionali, nella loro proiezione pubblica, alla costruzione del consenso. L’azione politica quotidiana è stata invece spesso reattiva se non addirittura emergenziale, in risposta a problemi inattesi, condizionata da pressioni politiche e ispirata non di rado proprio alla massima obamiana: all’evitare di “fare stupidate”, come intervenire militarmente in Iraq o in Vietnam.
Questo pragmatismo al ribasso si afferma soprattutto in periodi di risorse decrescenti – in termini di mezzi e capitale politico – come quello attuale. E spiega, quindi, la cautela e finanche l’inazione dell’amministrazione Obama in alcune crisi recenti, in particolare quella in Irak-Siria e a Gaza (meno in Ucraina, dove gli Stati Uniti hanno agito con una certa fermezza). Si tratta di un pragmatismo che ben si accorda con l’Obama moderato, centrista e professorale: leader di suo poco coraggioso o incline al rischio. Non basta però la filosofia obamiana – la sua scarsa propensione verso le visionarie grand strategy – a spiegare l’atteggiamento dell’amministrazione Usa negli odierni teatri di crisi. Per quanto sottaciute, pesano, infatti, anche precise considerazioni politiche e geopolitiche. Nel caso dell’Ucraina, le pressioni dell’opinione pubblica, orientata in chiaro senso anti-russo, e l’auspicio di sottrarre a Mosca un ulteriore tassello della sua sfera d’influenza in Europa orientale sono almeno in parte bilanciate dalla crescente marginalità geopolitica del continente europeo, ormai subordinato al teatro dell’Asia-Pacifico, in termini d’interessi economici e impegno strategico. Questo doppio condizionamento, politico e geopolitico, è ancor più visibile in Medio Oriente. La relazione e il legame speciale con Israele e il peso di gruppo filo-israeliani negli Usa condizionano in modo rilevante l’atteggiamento degli Stati Uniti rispetto alla questione israelo-palestinese, come si è ben visto nell’ultima crisi su Gaza. La decrescente centralità del teatro mediorientale – conseguenza anche del graduale affrancamento degli Stati Uniti dalle risorse petrolifere regionali – e l’indisponibilità dell’opinione pubblica americana a sostenere nuovi interventi militari spiegano a loro volta l’inazione di Washington o la limitatezza d’interventi come quello in corso in Irak.
Il tiro all’Obama e alla sua politica estera sembra essere sport assai popolare oggi, negli Usa e non solo. Vi sono però solide ragioni dietro alle scelte (e alle non-scelte) recenti degli Stati Uniti. E a dispetto di quel che crede Hillary Clinton, il “non fare stupidate” rimane assioma di politica estera dalla tradizione assai solida e dalla validità senza tempo.