In giro per la rete, tra i commenti degli esperti alla notizia della (quasi) prossima nuova strategia di sicurezza nazionale, ho avuto modo di apprezzare quello di Richard Fontaine, presidente del Center for a New American Century. Nel post intitolato “The Realities of National Security Strategies” Fontaine individua perfettamente i limiti delle strategie di sicurezza nazionali americane. Tali documenti, difatti, in genere non articolano in modo coerente ed interconnesso fini, mezzi e risorse ma puntano, invece, a dare una copertura “alta” a politiche ed a decisioni già operative.
Sono, più che altro, documenti di comunicazione istituzionale con scarsa o inesistente funzione di guida e di coordinamento all’interno delle burocrazie, privi dell’indispensabile priorizzazione e, anzi, contenenti spesso un elenco onnicomprensivo di “issues”. Insomma: poca strategia.
Però, evidenzia giustamente il presidente del CNAS, nonostante questi limiti, le National Security Strategies sono pur sempre documenti utili laddove è il processo, più che il testo in sé, a produrre risultati. Scrive Fontaine:
(…) surprisingly, it is not all a wasted exercise, so long as you recognize the limitations. In the end, it may be that this is one governmental exercise where the process matters more than the product. In order to produce a National Security Strategy, smart people think for a long time about the grand sweep of U.S. policy. Senior policymakers, to the extent they play a role in the process, are forced to think through core issues and future possibilities in a way that is much different from their day to day grind. And all that process can provoke our foreign policy leadership to think more deeply, more broadly, and more about the future than they otherwise would — and that can’t be a bad thing. Maybe Eisenhower said it best: “Plans are worthless but planning is everything.”