Lo afferma Aldo Giannuli ed ha, ovviamente e purtroppo, ragione:
[…] Giannuli si dichiara apertamente anti-complottista e anti-cospirazionista: “I grandi processi non sono mascherabili” e costituiscono “la base di analisi per capire le singole notizie”. La capacità dell’operatore dell’informazione, analista o giornalista, sta nel tenere fermo questo sfondo fatto di solide e concrete realtà geopolitiche. Non ci vuole un grande dietrologo per capire che cosa implichi, in termini di interessi coinvolti, un progetto come South Stream: basta vederne il tracciato sulla carta geografica. È alla geopolitica che in qualche modo bisogna tornare contro gli eccessi di specialismo che, per esempio, fanno leggere la crisi come un fatto economico agli economisti e come un fatto politico-militare agli strateghi, mentre è dall’intreccio dei due piani che se ne coglie la complessità […].
Il cumulo di informazioni produce, in modo sempre più complesso e stratificato, giudizi politici. È inevitabile purché, esercitando il raziocinio, il giudizio sia equilibrato e sfaccettato, consapevole della complessità degli interessi in gioco. Che ci sia una infowar in corso in Siria, per esempio, è innegabile. Come spiegare altrimenti, si chiede Giannuli, la presenza di tanti telefoni cellulari non intercettabili, pronti a trasmettere quello che succede in ogni punto di un Paese che era tra i più chiusi alle tecnologie informatiche? Ma lo scontro non è solo mediatico, la posta in palio è reale. Il singolo episodio (questa o quella strage, questo o quel bombardamento) può anche essere “costruito”, ma non lo è la rottura degli equilibri etnici che reggeva uno dei Paesi più complessi dell’area, la cui esplosione preoccupa perfino Israele. Va dunque respinta tanto l’ingenua pretesa che non ci siano manipolazioni quanto l’esagerata (specie da parte russa) sottolineatura di un complotto mediatico internazionale.
“Piaccia o no, nel Medio Oriente contiamo meno che in passato”, dice lo storico, “e di una politica per il Mediterraneo non vedo traccia”. La Libia è stata dunque una sconfitta (gradita, in un certo senso, visto il carattere dittatoriale del regime di Gheddafi) per i nostri servizi, che non sono stati in grado di anticipare le mosse anglo-francesi, di capire l’orientamento neutrale dell’etnia maggioritaria e di prevedere lo sfaldamento del sistema di potere di Tripoli. Forse per pigrizia, non si è stati in grado di rileggere la storia e vedere nelle trasformazioni sociali attorno al porto di Bengasi la miccia per il ritorno di un antico ribellismo cirenaico, di cui pure come potenza coloniale avevamo avuto esperienza diretta. Siamo ora di fronte al maggiore cambiamento epocale dopo il crollo del comunismo in Europa orientale (1989), ma con l’aggravante che “dopo vent’anni di diseducazione non abbiamo prodotto una classe politica di ricambio”.