Il 2013 secondo l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale.
Tra i vari contributi, tutti interessanti, segnalo in particolare quello di Alessandro Colombo, docente di Relazioni Internazionali dell’Università di Milano, che, come sempre, sottolinea questioni realmente strategiche.
Nell’insieme di paradossi che complicano l’attuale contesto internazionale, uno sembra destinato a pesare sempre di più sia a livello regionale che a livello globale. Da un lato, la natura dei problemi che gravano sulla sicurezza degli attori (tanto statuali quanto non statuali) sarebbe tale da richiedere risposte concertate e, nei limiti del possibile, multilaterali. Questo vale, scontatamente, per i problemi che investono direttamente le istituzioni esistenti, come la crisi del debito e la recessione economica nel quadro dell’Unione Europea. Ma, quasi a maggior ragione, questo vale anche per i problemi che si manifestano al di fuori di efficaci mediazioni istituzionali, tanto all’interno di singoli contesti regionali – come la guerra civile siriana o l’annoso conflitto israelo-palestinese in Medio Oriente – quanto su scala globale – come la crisi finanziaria, lo stallo del regime del commercio internazionale o l’inquinamento ambientale.
Dall’altro lato, proprio la pressione della crisi e la crescente incertezza sul futuro inducono un numero sempre più alto di attori – e tra loro, soprattutto, alcuni degli attori principali, Stati Uniti in testa – a concentrare attenzione e risorse sul proprio versante interno, selezionando con sempre maggiore prudenza gli impegni esterni anche a costo di indebolire i contesti multilaterali di appartenenza. È la tendenza neo-isolazionista che, con qualche esagerazione, alcuni commentatori hanno già intravisto nel secondo mandato dell’amministrazione Obama. Ma è, soprattutto, la tendenza già in atto nelle tensioni infra-europee degli ultimi mesi, oltre che, per esempio, nella tentazione dell’opinione pubblica britannica di voltare una volta per tutte le spalle all’Unione Europea.
Ed è la stessa tendenza che si manifesta nella paralisi della comunità internazionale di fronte alla tragedia siriana, nella disordinata corsa alla exit strategy in Afghanistan e, ancora di più, nella moltiplicazione dei segnali di chiusura sul terreno critico per eccellenza dell’economia internazionale.
Questa crescente introversione può avere conseguenze di grande portata per il sistema internazionale. Intanto, essa rende ancora più problematico il rilancio del multilateralismo, già complicato dalla redistribuzione in atto del potere e del prestigio internazionale, mentre frena l’assunzione di nuovi impegni del tipo di quelli simboleggiati dal cosiddetto interventismo umanitario degli ultimi due decenni. In secondo luogo, la tentazione (reale o semplicemente temuta) del disimpegno rischia di indebolire la credibilità degli impegni già presi, in una fase tutt’altro che semplice per molte alleanze multilaterali (come la stessa Nato) e bilaterali (come quelle degli Stati Uniti con tradizionali alleati quali Israele, Egitto, Turchia o Pakistan).
Infine, questa crisi di credibilità può spingere a una ricerca in ordine sparso di soluzioni alternative, col rischio di innescare nuove competizioni per la sicurezza e, nella peggiore delle ipotesi, vere e proprie spirali competitive quali quelle che si profilano in Asia orientale e sono già in atto in Medio Oriente.