Caso ha voluto che proprio 36 ore dopo aver acquistato “Why Nations Fail“, convinto dalla review di Bill Emmott nell’ultimo numero di Survival, anche su Linkiesta sia apparso un articolo dedicato a questo promettente libro.
Promettente perché gli autori, un economista del MIT ed uno scienziato politico di Harvard, affrontano una questione sulla quale si discute almeno dai tempi di Adam Smith: perchè alcune nazioni sono ricche ed altre no? Perchè alcune prosperano ed altre restano povere?
Acemoglu e Robinson sostengono che sono le istituzioni a determinare il destino delle nazioni: un paese fiorisce quando le istituzioni sono “inclusive” e pluralistiche, cioè quando i diritti di proprietà sono garantiti, i livelli di partenza uguali per tutti, l’iniziativa individuale incoraggiata. Al contrario, le nazioni falliscono quando le istituzioni sono “estrattive” ed elitarie, cioè quando «sono strutturate per estrarre risorse da molti per distribuirle a pochi, i diritti di proprietà non vengono protetti e gli incentivi per l’attività economica sono insufficienti». In parole povere: la storia insegna che la ricchezza di un paese cresce se i cittadini sono incentivati a innovare e a investire; al contrario, i paesi si impoveriscono se le istituzioni disincentivano i singoli individui e proteggono piccole aree di privilegio. […]
Il libro fornisce un ventaglio di esempi, accuratamente documentati, che copre tutto l’arco della storia umana. […]Perché l’industrializzazione compì i primi passi in Gran Bretagna e non altrove? Secondo i due autori la data chiave è il 1688, quando una dura lotta tra gli Stuart e il Parlamento (che rappresentava i proprietari terrieri e la borghesia nascente) finì con l’espulsione di Giacomo II e l’ascesa al trono di Guglielmo d’Orange. Il nuovo monarca firmò la Dichiarazione di diritti (Bill of Rights), accettando il ridimensionamento dei propri poteri. Da quello scontro (passato alla storia come la Rivoluzione Gloriosa) partì un circolo virtuoso di riforme che portarono a “includere” settori sempre più ampi della popolazione. Quella “inclusione”, con tutte le garanzie costituzionali che rapidamente vennero conquistate (fino al suffragio universale), spiega perché la rivoluzione industriale partì proprio in Inghilterra: la nuova borghesia nascente sapeva che avrebbe potuto godere dei profitti del proprio lavoro.
Perché il Messico è più povero degli Stati Uniti? Perché quelle due aree geografiche, nell’era della colonizzazione, ebbero destini diversi. In Messico, dopo la caduta dell’impero atzeco (1521), gli spagnoli imposero odiose tasse alla popolazione locale, che venne ridotta in schiavitù. Così ai locali fu impedito di trarre beneficio dal loro lavoro, mentre gli spagnoli si abituarono ad arricchirsi del lavoro degli altri. Negli Stati Uniti questa strada non fu percorribile. I tentativi di imporre un sistema feudale alle tribù locali (e poi ai coloni) si infranse contro la vastità del territorio: se si cercava di imporre regole troppo stringenti a un gruppo di persone, questo si spostava da un’altra parte. Rapidamente i coloni pretesero di avere voce in capitolo nella gestione di quelle terre, e di poter godere dei frutti del loro lavoro. I colonizzatori inglesi dovettero abbozzare.
In Messico si svilupparono istituzioni che sostenevano un’economia schiavista (estrattiva), negli Stati Uniti un’economia da uomini liberi (inclusiva).[…]Applicata al comunismo sovietico, la teoria di Acemoglu e Robinson funziona così. L’URSS registrò una sostenuta crescita economica, alla metà del secolo scorso, quando riuscì a trasferire imponenti risorse da un’agricoltura improduttiva all’industria nascente. Il rapido balzo in avanti del Pil fu reso possibile dalla tragedia di un’intera generazione di contadini. Ma si trattava di una fiammata destinata a spegnersi, perché una crescita a lungo termine deve essere alimentata da una continua innovazione, cioè da un’incessante sostituzione del vecchio con il nuovo: il processo che Schumpeter battezzò “distruzione creativa”. Ma il potere politico non ama la distruzione, in particolare in quei sistemi dove il lavoro individuale non è libero di perseguire il profitto individuale. Fu proprio l’incapacità a innovare (e a consentire la distruzione creativa) che provocò la stagnazione e il collasso della società sovietica.
La società cinese seguirà la stessa parabola discendente? Acemoglu e Robinson ritengono di sì, a meno che Pechino non si decida a varare drastiche riforme istituzionali. Negli ultimi decenni, dopo il disastro maoista, il partito comunista è stato in grado di monopolizzare il potere e di promuovere una crescita partendo da un livello molto basso, ma questa crescita non è sostenibile. […]
«D’altra parte, se la Cina non opera la transizione verso un’economia basata sulla distruzione creativa, non ci sarà crescita a lungo termine», dice Acemoglu. La crescita dell’India, che ha istituzioni più “inclusive” e democratiche, è destinata a durare ben più a lungo di quella cinese. La Cina e l’Unione Sovietica dimostrano che anche le dittature possono ottenere buoni risultati economici per decenni. Ma alla lunga i fondamentali prevalgono sempre.Negli ultimi capitoli del libro Acemoglu e Robinson suonano il campanello d’allarme. I paesi occidentali hanno creato economie floride perché si sono dotati di istituzioni inclusive. Ma devono impedire che alcune potenti élites acquisiscano eccessivo potere. Se le élites diventano dominanti, possono condizionare le istituzioni e determinare il declino dell’economia. Le èlites odiano la distruzione creativa. Preferiscono che le cose restino come sono perché è proprio sullo status quo che fondano il loro dominio e i loro privilegi.
Una riflessione utile anche per le strategie del nostro Paese che di certo non brilla per “inclusività”.