Un articolo pubblicato oggi sul Sole24ore (gentilmente segnalatomi da un illustre utente):
"(…) Sulla base di una ricerca condotta sui dibattiti parlamentari e sulle motivazioni delle decisioni dei ministri e dei sottosegretari della Difesa e degli Esteri nel periodo 1990-2006 (i risultati saranno pubblicati da Piero Ignazi, Giampiero Giacomello e Fabrizio Coticchia in Just don't call it war! Italian military missions abroad, Palgrave-Macamillan), possiamo sostenere che l'approccio adottato dai politici durante la crisi libica è in linea con le scelte dei decision-makers nel corso delle principali crisi internazionali nelle ultime due decadi. I tratti costanti sono: il basso profilo da un punto vista militare (missioni depotenziate dal punto di vista di mezzi e risorse in Iraq e Afghanistan); l'estrema cautela e riluttanza nell'impiegare la forza (emblematica la scelta di ricorrere alla trattativa nei confronti dei signori della guerra somali, delle milizie sciite a Nassiriya, dei clan afghani); la richiesta di una soluzione diplomatica parallela alle azioni militari (si rammentino le proposte di accordo rivolte a Saddam Hussein e Slobodan Milosevic); la permanente centralità della politica interna (il tema dell'immigrazione, oggi come negli anni Novanta, elemento centrale della discussione dopo le crisi balcaniche); l'affannosa ricerca di visibilità internazionale attraverso un presenzialismo militare e diplomatico (la ricorrente proposta di ospitare in Italia conferenze di pace, e il comando operativo Nato delle missioni sulla Libia a Napoli); il richiamo ai valori di multilateralismo, pace e umanitarismo; l'inconsistenza tra retorica e realtà sul terreno (la missione in Iraq Antica Babilonia nel 2003, interpretata come intervento di pura "emergenza umanitaria").
(…) La crisi libica è l'ennesima dimostrazione di un preciso tipo di cultura strategica con la quale gli attori politici, di Governo e opposizione, di centro-destra e centro-sinistra, hanno affrontato missioni internazionali, sfide per la sicurezza ed eventi bellici. La nostra ricerca condotta sul dibattito parlamentare in merito agli interventi in Iraq (1990 e 2003), Somalia, Albania, Kosovo, Afghanistan e Libano, evidenzia un sostanziale consenso bipartisan sulle missioni all'estero. Proprio l'interpretazione che i decision-makers, di Governo e di opposizione, danno degli interventi – derubricazione dell'elemento bellico, enfatizzazione dell'obiettivo umanitario e pacificatore, ricerca di visibilità con il minimo rischio – ha condizionato operativamente l'intervento stesso, attraverso regole d'ingaggio e caveat restrittivi e mezzi militari inadeguati alla pericolosità dell'operazione.
(…) La retorica dell'umanitarismo ha ridimensionato la dimensione militare delle operazioni e fatto emergere una pericolosa ambiguità fra interpretazione politica e realtà sul campo. Tanto più pericolosa quando questo processo di "occultamento del bellico" riguardava missioni in ambiti altamente conflittuali, dal Kosovo all'Iraq, dalla Somalia all'Afghanistan.
In questi contesti, il gap tra una cultura strategica dominata dai valori dell'umanitarismo e della pace e la reale condizione sul terreno ha messo a repentaglio la sicurezza dei contingenti e ha anche avuto conseguenze drammatiche. Contingenti depotenziati, mezzi, misure di protezione e sicurezza inadeguati, regole d'ingaggio e caveat rigidi, codici penali datati e inapplicabili, continue ambiguità hanno segnato la storia delle nostre missioni all'estero. Pur senza dimenticare gli incidenti mortali per inadeguatezza di mezzi e materiali, il caso di Nassiriya è certo il più drammatico."