Bisanzio, il volere e non potere dell’America d’oggi
La (discutibile) analogia proposta da Luttwak
La Stampa – 27.12.2009
Supponiamo che la dirigenza strategica della maggiore potenza militare mondiale, dopo sette anni di iniziative belliche destinate a produrre esiti incresciosi, sia investita da un’ondata globale di discredito.
Supponiamo che un consulente strategico di questo governo, non necessariamente il più influente ma fra i più mediaticamente esposti e culturalmente duttili, pubblichi, per esorcizzare il danno, un saggio che sia insieme popolare e tale da incutere soggezione. Supponiamo che costui decida di parlare del presente attraverso il passato – tradizione consolidata tra i consulenti strategici, a partire da Machiavelli – e a questo scopo profonda una dottrina coltivata en amateur da decenni: un esercizio di erudizione di più di 500 pagine, in cui prenda a parlare non più dell’impero romano, su cui a suo tempo ha scritto un libro molto discusso, ma di un impero studiato da pochi e conosciuto da ancora meno: l’impero bizantino.
E supponiamo infine che lo trasformi nella controfigura ideale, nel modello irraggiunto della potenza mondiale che ha servito, così da spiegare da un lato il fallimento della recente strategia di quest’ultima e predire dall’altro la sua continuazione quale massimo impero mondiale. Ecco che Bisanzio diventa la ricetta per il futuro dell’America e che il poderoso saggio di Edward Luttwak (La grande strategia dell’impero bizantino, Rizzoli) diviene un vademecum per capire il mondo attuale e il suo destino, interpretato quale ineluttabile scontro, ieri come oggi, fra Est e Ovest. Lo studio del passato è diagnosi del presente e prognosi del futuro.
L’idea di Luttwak di studiare la strategia di Bisanzio è geniale oltre che attuale, poiché il fantasma di quel millenario impero multietnico aleggia sulle aree geopolitiche interessate dai conflitti del XXI secolo, e non solo su quelli scatenati dalle dottrine strategiche dell’amministrazione Bush – Iraq, Afghanistan, Pakistan – ma di fatto su tutte le zone nella cui odierna proliferazione bellica la strategia militare americana (e non solo) è intervenuta dopo la fine della Guerra fredda: dai Balcani al Medio Oriente, dalla Mesopotamia al Caucaso. Per questo, e per molte altre ragioni, le riflessioni di Luttwak sarebbero più che legittime.
Se non partissero, tuttavia, da premesse sbagliate. «Se fa come Bisanzio, l’impero americano durerà ancora a lungo». Ma l’America non è mai stata un impero. Del particolare e peraltro desueto sistema di governo del territorio basato sulla dialettica tra centro e periferie anche remote, dunque sulla reciproca interazione di culture, geografie, etnie, linguaggi, élite, l’America non ha la storia, le tradizioni, l’apertura, che sono state invece proprie di poteri oggi in declino e in passato più o meno funzionali, ma certamente imperiali, come la Gran Bretagna o la Francia, la Turchia o la Russia. Ancora meno ha quelle di Bisanzio.
Conferire all’America status di impero significa da un lato alimentare un equivoco storico e dilatare un paragone incongruo fino al paradosso, dall’altro implicitamente giustificare ex post proprio quel ruolo di invadente gendarme internazionale che è stato causa dei fallimenti e dell’impopolarità dell’amministrazione Bush nel mondo e presso i suoi stessi cittadini. Oltre all’equivoco di fondo, vari equivoci più circostanziati contribuiscono alla deformazione generale di un quadro che per altri versi Luttwak ha colto (l’uso delle armi per contenere o punire piuttosto che per attaccare con spiegamento di forze; l’alleggerimento del potenziale militare e l’uso della diplomazia o della «dissuasione armata»; le varie forme di incentivo date agli Stati satelliti sotto forma di sussidi, doni, onori e così via).
Ma, ad esempio, affermare che il punto di forza dei governanti bizantini sia stata «la fiducia indiscussa di essere gli unici difensori dell’unica vera fede», presentare i rapporti con il nascente mondo arabo in termini di accesa contrapposizione religiosa, parlare addirittura, a proposito del califfato, di «offensiva jihadista», spingersi a considerare «guerre sante» le iniziative militari bizantine – tutti questi sforzi di attualizzazione sono arbitrari e dunque insidiosi. Non può essere certo paragonato all’islamismo odierno il tollerante e multireligioso mondo arabo ommayyade e abbaside preso in considerazione da Luttwak.
E, anzi, proprio nella periodizzazione si registra il maggior limite del libro, che lo colloca, come quello sull’impero romano, nel peraltro interessante genere dell’esercitazione storiografica praticata dal personale politico di ogni epoca. Nel definire quello che chiama il «codice operativo» della strategia di Bisanzio, Luttwak si basa su una «continuità» effettiva, che tuttavia attinge ai vari periodi in modo incostante. Se avesse approfondito di più l’età macedone, e quella comnena e paleologa, si sarebbe dovuto misurare con paradossi strategici ancora più significativi per il presente: ad esempio, l’ambiguo rapporto tra la potenza marittima bizantina e le repubbliche mercantili, la compenetrazione con i turchi osmani e così via. Come scrive nel suo Strategikon un bizantino dell’XI secolo, Cecaumeno: «Se prendi un libro, leggi tutte le pagine e non limitarti a estrarre solo le cose che ti piacciono di più».