di Andrea Gili, da Epistemes.org
I recenti scontri in Georgia tra truppe russe ed esercito georgiano hanno attirato l’attenzione di tutta la comunità internazionale. La situazione, già complicata di suo, è presto degenerata e al momento risulta ancora difficile capire quali saranno i suoi sviluppi. Anziché addentrarci in improbabili previsioni, in questa sede preferiamo provare ad identificare alcune lezioni generali che possono essere tratte da questa guerra.
I bombardamenti su Tbilisi, ma anche sull’Ossezia del Sud e sull’Abkhazia, sono giunti largamente inattesi, anche se la situazione era calda da molto tempo, e hanno lasciato impreparata tutta la comunità internazionale, in quel frangente più impegnata con le Olimpiadi che non con la geopolitica. Ciò che ci interessa sottolineare è che con essi sembra essere avvenuto un parziale chiarimento del panorama internazionale. Chiarimento che ci permette di trarre alcune conclusioni generali sullo stato della politica internazionale.
In primo luogo, nonostante la retorica degli ultimi anni fosse concentrata sul terrorismo, l’intervento russo in Georgia dimostra come a muovere la politica internazionale continuino ad essere gli Stati. Inoltre, proprio questo scontro dimostra come, per quanto tatticamente distruttivo possa essere il fenomeno terrorista, le azioni degli Stati continuino a rimanere strategicamente molto più rilevanti. Con l’11 settembre abbiamo avuto alcune migliaia di morti e alcuni miliardi di dollari di danni economici. Con l’eventuale conquista della Georgia da parte della Russia avremmo l’Europa totalmente soffocata dal punto di vista energetico – la differenza tra le due è la stessa che intercorre tra un incidente in auto e la distruzione dell’unico ponte che unisce due rive di un fiume.
All’indomani dell’11 settembre, chi ricordava come il terrorismo fosse un fenomeno temporaneo e marginale veniva schernito e ridicolizzato. Le previsioni di nuovi scontri con la Russia erano considerate macabre elucubrazioni di soggetti mentalmente disturbati. La storia sembra aver dato il suo responso – e non è molto favorevole a chi ha speso gli ultimi anni a parlare di Islamofascismo e Quarta Guerra Mondiale (a meno, ovviamente, di improbabili salti pindarici come quelli di Robert Kagan, volti ad affermare di essere rimasti coerenti mentre si è di fatto cambiata opinione).
Il secondo elemento sul quale è necessario ragionare riguarda la politica estera americana ed il suo corso negli ultimi anni. Chi si è opposto alla Dottrina Bush ha più volte sottolineato come essa fosse, fondamentalmente, self-defeating. Avrebbe imposto duri costi all’America senza offrirle alcuna sicurezza aggiuntiva. In particolare, molti autori avevano notato come con la Dottrina Bush l’America si sarebbe trovata solo più debole e isolata, soprattutto nel momento del bisogno. Se per “forza” intendiamo la capacità di influenzare gli eventi esterni, la politica adottata dagli Stati Uniti nel corso di quest’ultima crisi dimostra chiaramente come la forza americana sia diminuita. Oltre a lanciare vaghi richiami e tenui minacce, Washington non è riuscita neppure minimamente ad alterare l’azione di Mosca. Il dato è paradossale se si pensa che solo pochi anni fa, più o meno direttamente, gli Stati Uniti riuscivano ad imporre due regimi amici in Ucraina e Georgia senza che la Russia potesse quasi intervenire.
Al di là dei vuoti richiami retorici verso il salvataggio della democrazia (?) georgiana, il dato di fondo è che l’America ha troppo bisogno della Russia per poter aprire un serio contenzioso su questo fronte. In altri termini, l’America si sta indebolendo – anche se non sembra, finora, che i suoi leader se ne siano accorti.
Il terzo elemento di riflessione riguarda proprio la democrazia e il suo ruolo nel panorama internazionale. Su questo punto sono necessarie diverse considerazioni. La paralisi dell’ONU, anche in questa crisi, è stata evidente. Altrettanto evidente è stata però la paralisi dell’Europa e delle altre democrazie nello sviluppare una posizione congiunta. Alcune sono volate a Tbilisi per solidarizzare (Polonia, Paesi Baltici, Ucraina), altre sono volate a Mosca per fare da mediatori (Francia), altre non sono proprio intervenute (Italia e Germania) mentre altre democrazie ancora hanno fatto molto rumore, ma ben poche azioni (Stati Uniti) – senza contare il comportamento britannico che gridava un singolare, armiamoci e partite.
Pensare, come fa per esempio John McCain, che un’Alleanza delle Democrazie possa sostituire l’ONU, alla luce di questi fatti, sembra dunque una barzelletta visto che la cooperazione tra democrazie non ha dato frutti molto diversi da quelli del Palazzo di Vetro.
Il secondo elemento di riflessione sulla democrazia a livello internazionale riguarda la sua poca affidabilità. Negli ultimi anni si è sviluppata la moda di pensare che attraverso la democrazia sia possibile raggiungere la pace mondiale. I fatti di questi giorni dimostrano quanto naive sia tale posizione. Le democrazie nascenti come quella georgiana sono spinte, per via delle proprie contraddizioni interne, a spericolati corsi di politica estera (come studiosi quali Snyder e Mansfield (2005) avevano avvertito) – con evidenti ricadute geopolitiche in termini di stabilità. Democrazie in divenendo, come quella russa, possono invece interrompere i loro sviluppi – rendendo quindi assolutamente inutili tutte le politiche di democratizzazione attraverso le quali si vorrebbe favorire pace e cooperazione.
Più in generale, gli scontri in Georgia hanno dimostrato quanto la promozione della democrazia non sia né efficace né affidabile per qualunque progetto di lungo periodo volto alla stabilità e alla cooperazione.
Un quarto spunto di riflessione offerto dagli scontri caucasici è dato dal wilsoniano diritto all’autodeterminazione. Negli ultimi giorni il parlamento russo ha deciso di sostenere l’indipendenza delle province ribelli della Sud Ossezia e dell’Abkhazia. Questi sviluppi erano assolutamente prevedibili – e difatti pure Epistemes.org li aveva previsti. La cocciutaggine americana non solo ora si vede presentare il suo conto, ma deve anche gestire una singolare ipocrisia – quella per la quale alle due province georgiana non dovrebbe spettare alcuna indipendenza – invece invocata laddove collimi con gli interessi americani (come il Kosovo). Allo stesso modo, l’uso della forza da parte di Mosca risulta difficilmente criticabile, da un punto di vista legale, se paragonato al comportamento americano degli ultimi anni.
In conclusione, la parentesi georgiana sembra aver avuto alcuni effetti positivi sulla politica internazionale. Ha fatto capire in quale direzione si sta muovendo la storia. Adesso sarebbe ora di ascoltare chi quelle previsioni le aveva fatte e non chi negli ultimi sette anni ci ha distratto con wishful thinking e risibili elucubrazioni.