di Giandomenico Picco, pubblicato su La Stampa di oggi
"Sabato 19 luglio a Ginevra un alto rappresentante americano s’è seduto al tavolo negoziale con gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza e la Germania davanti al negoziatore della Repubblica islamica d’Iran. Per molti l’incontro non ha prodotto alcun risultato. Gli incontri tra Washington e Teheran sono molto rari. Certo ci sono dei precedenti: Usa e Iran hanno negoziato direttamente già a Baghdad lo scorso anno, senza concludere praticamente nulla; avevano invece dialogato in modo assai efficace nel dicembre 2001 a Bonn, dov’era nato l’Afghanistan post talebano. Fu l’intesa tra Iran e Stati Uniti che aprì un nuovo capitolo nella storia di quel martoriato paese. Lo stesso 19 luglio il capo di Stato maggiore Usa, ammiraglio Mike Mullen, dichiarava che un attacco all’Iran potrebbe avere conseguenze imprevedibili per la regione. Aggiungendo: «Sto combattendo già due guerre, non ho bisogno di una terza». Solo pochi giorni prima il segretario di stato Rice aveva avanzato l’ipotesi di una presenza diplomatica Usa a Teheran, a 28 anni dall’assalto all’ambasciata americana e la successiva, prolungata, detenzione di ostaggi.
È utile porre il 19 luglio nel contesto degli avvenimenti recenti avvenuti nella regione del Golfo. Negli ultimi mesi Siria e Israele hanno cominciato a negoziare in modo indiretto grazie ai buoni uffici della Turchia; le varie fazioni libanesi – con la mediazione del Qatar – hanno raggiunto un accordo e reso possibile l’elezione del presidente e la formazione d’un governo di unità nazionale; Israele e Hamas sono giunti a un cessate il fuoco di fatto con la mediazione dell’Egitto. E ancora Israele ed Hezbollah hanno raggiunto un accordo sullo scambio di prigionieri con il contributo della Germania e dell’Onu; lo Yemen ha operato per la riconciliazione tra le due principali fazioni palestinesi, Hamas e il governo del presidente Abbas. Inoltre, con un gesto che ha rotto l’isolamento occidentale attorno alla Siria, il presidente Assad è stato invitato a Parigi a metà luglio e, per la prima volta dall’indipendenza del Libano nel 1943, Damasco ha annunciato che aprirà un’ambasciata a Beirut.
Il fiorire di tutte queste iniziative è significativo non solo per la stretta contemporaneità, ma anche per il ruolo giocato dai paesi dell’area nei negoziati. In ognuna di queste trattative si fronteggiavano due schieramenti ben definiti: Iran, Siria, Hezbollah e Hamas da un lato, Arabia saudita, Egitto, Israele, gruppi libanesi filo occidentali dall’altro. Questa ondata di attività diplomatiche ha anche prodotto una vasta fluidità politica in tutta la regione. Il ruolo americano in Iraq è entrato in una nuova fase, ben visibile sul terreno, dove la conflittualità interna è assai diminuita. Mentre nel negoziato nucleare nulla è ancora emerso che indichi un cambio sostanziale delle rispettive posizioni, la presenza Usa a Ginevra non va sottovalutata. Contemporaneamente il negoziato con l’Occidente è oggetto di dibattito interno in Iran. Solo poche settimane fa Velayati, già ministro degli Esteri e oggi consigliere per la politica estera del leader supremo, dichiarava alla stampa conservatrice locale che era opportuno negoziare sul contenzioso nucleare e su altri argomenti anche se ciò non significa accettare le proposte di altri. Dopo il 19 luglio anche il presidente iraniano ha usato espressioni benevole sulla presenza americana in quella sala.
Il rapporto tra Stati uniti e Nord Corea, inesistente solo pochi anni fa, si è poi sviluppato soprattutto attraverso il negoziato nucleare. Ma l’Iran non è la Corea del Nord. Al suo ruolo politico-ideologico nell’intero scacchiere che va dall’Afghanistan al Libano, alla sua importanza come principale produttore petrolifero e alla collocazione strategica alle bocche dello stretto di Hormuz, Teheran aggiunge oggi il peso della sua tecnologia in campo atomico. Ma l’aspetto più importante della riunione di Ginevra è che Usa e Iran si siano seduti allo stesso tavolo in posizione di parità. L’Iran ha guadagnato una buona percentuale di quello che cercava da anni. I dirigenti iraniani sanno che adesso tocca a loro rispondere all’apertura di Washington. Ma per fare questo non possono aspettare la prossima amministrazione americana. Il tempo utile scade, al massimo, con le elezioni Usa del 4 novembre. Nell’interregno tra le elezioni e la assunzione della carica da parte del nuovo presidente il 20 gennaio 2009, chi pensa a un’opzione militare potrebbe avere meno remore: una simile mossa prima del 4 novembre al contrario avrebbe un impatto diretto sul risultato elettorale. Le diverse forze politiche della regione si sono forse convinte, come dice il giornalista libanese Rahmi Khouri, che è impossibile la vittoria totale d’una fazione sull’altra. Nessuno ha completamente perso né chiaramente vinto. Dopo il 19 luglio il peso sulle spalle di Teheran è ancora maggiore."