Vi allego, senza autorizzazione dell’autore, la recensione di Andrea Gilli* sul nuovo libro di Robert Kagan, “The Return of History“.
Questo breve articolo è interessante non solo per la recensione del libro ma anche – e forse soprattutto – perchè Andrea, con la sua solita chiarezza e competenza, spiega alcuni dei punti fondamentali del dibattito scientifico nel campo delle Relazioni Internazionali degli anni Novanta.
Il tutto condito da precisi ed utilissimi riferimenti bibliografici.
* Ho commesso un errore di distrazione. L’autore non è Andrea ma Mauro, suo fratello. Chiedo scusa ad entrambi. Inutile dire che confermo in toto il mio giudizio positivo su autore ed articolo.
La storia non è mai finita. Recensione di The Return of History
Il nuovo libro di Robert Kagan “The Return of History and the End of Dreams” parte dal presupposto che la speranza assai diffusa durante tutti gli anni Novanta secondo la quale il mondo sarebbe stato proiettato verso un’era di pace e prosperità era basata su assunti del già obsoleti al tempo della sua prima formulazione (p. 10). Per Kagan, l’attuale crescita di nuove potenze segna infatti “il ritorno della Storia” – prendendo come bersaglio la famosa tesi della “fine della Storia” di Francis Fukuyama. In altre parole, il sistema internazionale, lungi dall’essere entrato in una nuova era, è invece tornato alla Politica di Potenza dopo una breve, brevissima pausa.
La Storia è ricominciata?
Leggendo questo veloce saggio, sorge naturale chiedersi se la storia fosse davvero mai finita. Kagan, parla di illusioni e di sogni, ammettendo implicitamente che in verità la storia non si era mai fermata. Ricorda come durante tutti gli anni ‘90, il consenso sulla “fine della Storia” fosse “quasi universale” (p. 4). E che solo pochi, isolati analisti provarono ad opporsi a questa ondata di euforia. Quei pochi erano gli studiosi di scuola realista, da Kenneth Waltz a John Mearsheimer fino a Colin Gray (nota 1). Come Kagan stesso riconosce: “realists had a clear understanding of the unchanging nature of human beings” (p. 11). Allora come oggi i realisti furono accusati di essere delle cassandre o addirittura di essere incapaci di vedere e capire l’evoluzione dei tempi (nota 2). Da quanto scrive Kagan sembra di capire che avevano ragione.
Kagan è uno scrittore intelligente. Non si perde in diatribe intellettuali sterili, e va subito al nocciolo del problema: la crescita di altre grandi potenze. Non discute di concetti astratti. Si focalizza sulla realtà e su cosa davvero influenza le relazioni tra gli Stati. Guarda alla forza relativa degli Stati, a come la usano per difendere la loro sicurezza, e infine a come questa influenzi la loro defininizione degli interessi nazionali. La sua è un’analisi realista, in tutti i sensi. Lo diciamo in modo chiaro: Kagan è un realista. Nel suo libro Of Paradise and Power aveva scritto che serviva “un ritorno al realismo”. Nella prima parte di questo saggio, la concezione filosofica alla quale si appoggia per analizzare i fatti reali diventa ulteriormente chiara.
Kagan non si limita a sottolineare come la natura umana sia immutabile, e come il conflitto sia parte essenziale di essa (p. 11) – sintetizzando così quella che è la “visione pessimistica” che i realisti, da Tucidide a Hobbes, per arrivare fino a Carr e Morgenthau hanno sempre avuto rispetto al genere umano e che li differenzia rispetto agli idealisti, da Platone a Kant, fino a Wilson e Angel – per i quali invece, grazie alla ragione, l’uomo sarebbe in grado di correggere i suoi errori e difetti, e dunque raggiungere pace e benessere. Kagan fa riferimento diretto anche ai concetti tipici del realismo (concetti che, negli ultimi anni, sono stati spesso dimenticati tanto dai policy makers quanto dai vari analisti dell’ultima ora). Parla infatti di onore, interesse, paura (si veda pp. 15-17, 18, 30-31, 35, 43, 45, 47-48, 49-50, 80) – i tre fattori che secondo Tucidide muovono gli esseri umani. E infine riporta poi alla luce il termine nazionalismo, un fenomeno che, sull’onda delle analisi secondo cui il mondo è “piatto” (Friedman: 2005), non dovrebbe più esistere. Per ultimo, quando parla degli Stati Uniti, spiega come il loro dinamismo militare degli ultimi vent’anni (il termine è nostro, vogliamo usare un eufemismo) sia dovuto prima di tutto alla fine dell’era bipolare (pp. 49-50), riassumendo così alla perfezione quanto scritto da Kenneth Waltz qualche anno fa (nota 3).
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