Intervista a Piero A. Capotosti.
Qualcuno dovrebbe farla leggere ai nostri brillanti Magistrati !!
«Ho sempre ritenuto che un magistrato che appaia in televisione o che vada sulla prima pagina dei giornali non sia una cosa da paese normale»: parla Piero Alberto Capotesti, che è stato vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e presidente della Corte costituzionale ed oggi insegna giustizia costituzionale alla Sapienza.
«Ho sempre ritenuto che i provvedimenti e l’immagine di un giudice non debbano essere "sbattuti in prima pagina", che i magistrati debbano fare il loro lavoro con riservatezza nel silenzio delle loro stanze, come si dice normalmente in una condizione di solitudine esistenziale. Il giudicare è un qualcosa proprio del singolo giudice, non ha bisogno di clamore. Per cui ho sempre visto negativamente il fatto che dei magistrati andassero in televisione o rilasciassero interviste in prima pagina sui giornali».
Perché non sono cittadini come gli altri?
«No, sono certamente cittadini come gli altri, quindi c’è l’articolo 21 della Costituzione che garantisce la libertà di espressione a tutti, compresi i magistrati. Ma essere magistrato è una scelta che comporta dei sacrifici e dei doveri oltre che dei diritti e dei vantaggi. E nessuno obbliga una persona a fare il magistrato. Quando si sceglie di entrare in magistratura si sa che ci sono determinati diritti, c’è una posizione sociale e se si vuole anche economica di tutto rilievo. Ma in compenso ci sono dei doveri specifici di quella professione. Sono dei doveri che incombono sul magistrato in quanto ha scelto di svolgere quella funzione. Sotto un certo profilo il magistrato è un cittadino che non può esercitare in pieno tutti i suoi diritti».
Cosa vuol dire esattamente «non può esercitare in pieno»?
«In particolare non può esercitare il diritto di libertà di espressione per quanto conceme il proprio lavoro. Perché le opinioni di un magistrato non possono essere anticipate divulgate proprio perché in qualche modo potrebbero essere il sintomo di una parzialità del giudice. Un giudice che esprime una propria opinione su un fatto e poi magari si trova ad affrontare una questione analoga a quella in ordine alla quale ha esposto il proprio pensiero, in qualche modo ha anticipato il proprio giudizio e potrebbe rischiare di essere ricusato. Quella del magistrato è una professione difficile, che sacrifica molto la persona che la sceglie. Ma è una scelta consapevole. Quando si entra in magistratura si sa quali sono i doveri».
Lei crede che un magistrato non solo debba essere ma anche apparire imparziale: non pensa che questo principio sia passato di moda?
«No, è una espressione corrente ma è assolutamente fondata. Perchè la pubblica opinione si fa influenzare da queste interviste. Al di là della trasmissione "Annozero", anche in altre occasioni ho visto in trasmissioni televisive magistrati che vanno a raccontare quello che stanno facendo, il contenuto delle loro indagini. Il magistrato deve esercitare la sua funzione senza aver bisogno del consenso popolare. Non è un politico. Potrebbe avere anche tutta l’opinione pubblica contraria ma se fosse sicuro che quella, in base alle prove, è la decisione che deve emettere, la emette. A rischio anche della impopolarità. Altrimenti faccia un’altra cosa».
La magistratura, tuttavia, lo abbiamo visto nel ’92 con Mani pulite, o nell’inchiesta che portò all’arresto di Enzo Tortora, ma in special modo nelle inchieste sulla mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, ha chiesto ed ottenuto il sostegno dell’opinione pubblica e questo a volte ha aiutato la giustizia: rmicercore non e d’accordo?
«Me ne rendo i conto. In certe zone del territorio italiano a fronte di una offensiva della criminalità organizzata pericolosissima, si è radicata una sfiducia atavica meritata o non meritata, nei confronti della politica. Le persone non si fidano più della politica, delle istituzioni e pensano che i propri problemi, le proprie emergenze sociali debbano essere delegate ad una persona terza e questa persona terza è individuata di volta in volta nel giudice competente. Questa è una convinzione che forse può apparire suggestiva, ma in realtà è pericolosissima. Perché viene ad identificare il magistrato con una "parte" di un determinato schieramento. Quindi di per se stesso perde la sua imparzialità. Il magistrato rischia di diventare un ostaggio in mano ad un gruppo, un movimento, un partito. Per quanto possa essere composto da persone entusiaste animate dalla passione per la giustizia, spinte dalle migliori intenzioni il giudice deve giudicare in base alla legge e alle prove. Ed invece potrebbe accadere che in certi processi il giudice se le prove sono insussistenti o sussistenti, a seconda dei casi, debba necessariamente condannare o assolvere anche in contrasto con l’opinione pubblica o di quella parte di opinione pubblica che lo sostiene e lo applaude».
Lei esorta i giudici a tenersi lontani dalla piazza?
«Guardi non siamo più ai tempi di Barabba. Il magistrato in un Paese democratico non deve cercare il consenso. Capisco ci possa essere il desiderio o la tentazione di dare al giudice il ruolo di angelo vendicatore, ma questo non è più uno Stato di diritto sarebbe uno Stato primitivo».
Nella sua esperienza di vicepresidente del Csm, ha verificato mai un giovamento dell’immagine della magistratura da un’apparizione mediatica di un pm o di un giudice?
«No, mai. Non credo abbia mai giovato».