Intervista di Mario Calabresi a John Mearsheimer
Il libro più controverso, aspro e imbarazzante pubblicato negli Stati Uniti nell´ultimo mese arriva in Italia questa settimana, preceduto anche da noi da accese polemiche giornalistiche inaugurate dal Foglio di Giuliano Ferrara. Il libro si chiama “La Israel Lobby” ed è scritto da due quotati professori universitari: John Mearsheimer e Stephen Walt (Mondadori, pagg. 442, euro 18,50). Il primo insegna scienza della politica all´Università di Chicago, il secondo relazioni internazionali ad Harvard, alla Kennedy School of Government.
La tesi del volume è netta senza sfumature: esiste negli Stati Uniti una potente lobby filo-israeliana, composta di persone di destra e sinistra, da ebrei ma anche da cristiani, che influenza pesantemente la politica estera. In modo talmente vincolante da essere capace di determinare le scelte fondamentali in una direzione che si è dimostrata essere contraria all’interesse nazionale americano.
Il volume ha toccato un punto sensibilissimo del dibattito politico, c’è chi si è indignato e li ha accusati di antisemitismo, chi ha invitato al boicottaggio e al silenzio – nelle ultime settimane sono state cancellate tre presentazioni all’ultimo momento – chi da posizioni radicali li ha applauditi mettendoli però in imbarazzo, ma anche chi ha riconosciuto che i due sono studiosi seri, non razzisti e che la loro tesi va discussa.
Certo è difficile prenderla in considerazione in astratto, trattare il caso Israele e i suoi legami con l’America e l’Occidente facendo finta che il presidente iraniano Ahmadinejad non sia venuto a New York a mettere in discussione l’esistenza dello Stato ebraico, ed è arduo trattare il tema dimenticandosi i proclami di Osama Bin Laden. Domande e perplessità che abbiamo discusso con uno degli autori, John Mearsheimer.
Come è nata l´idea di questo libro?
«Dopo l’11 settembre gli americani volevano capire la ragione dell’odio di chi ci aveva colpito e di una parte del mondo arabo e islamico. Io e Steve ci conosciamo da quando facevamo il dottorato ad Harvard e poi abbiamo lavorato insieme per dieci anni a Chicago, così ne abbiamo discusso per mesi. Nella primavera del 2002 siamo giunti alla conclusione che la nostra politica verso Israele era un fattore decisivo, ma che parlarne negli Stati Uniti era quasi impossibile, così decidemmo di provare a raccontare tutto ciò in un articolo».
Ma sul mensile The Atlantic Monthly non uscì mai.
«Ce lo commissionarono loro e quando videro la prima bozza nel maggio del 2004 ci dissero che gli era proprio piaciuto. Poi suggerirono dei cambiamenti che noi accettammo in pieno. Ma alla fine lo rifiutarono dicendo che con i tagli non funzionava più. Per sei mesi cercammo di pubblicarlo altrove negli Stati Uniti, poi perdemmo le speranze. Finché a sorpresa non ce lo chiese la London Review of Books. Poi grazie ad internet venne letto da una grande parte dell’élite intellettuale americana e questo scatenò la discussione e oggi ha portato al libro».
Partiamo dal titolo, non avete avuto nessun imbarazzo a parlare di "lobby israeliana", quando il termine "lobby ebraica" è stato ampiamente utilizzato durante il secolo scorso per giustificare ed enfatizzare l´antisemitismo?
«Sì, ci siamo molto preoccupati di poter essere male interpretati e abbiamo provato in tutti i modi che non stavamo parlando di una lobby ebraica, che questa lobby non include tutti gli ebrei ma anzi molti cristiani sionisti. Ma nonostante gli sforzi un sacco di gente ha distorto la nostra tesi e ha cercato di far passare l´idea che noi stessimo parlando di una cospirazione. Noi anzi sosteniamo molto chiaramente che non c’è nulla di illegittimo nel comportamento della lobby filo-israeliana».
Ma allora perché non cambiare titolo?
«Innanzitutto perché gli stessi appartenenti a questo gruppo di pressione usano il termine lobby, poi perché il termine negli Stati Uniti non ha un’accezione negativa come può avere in Italia o in Europa e infine perché chi ci voleva attaccare lo ha fatto comunque al di là della sostanza».
Accusandovi di antisemitismo?
«Esattamente. Lo steso è avvenuto con Jimmy Carter e con il suo libro sulla Palestina. La lobby non era interessata nel discutere se Israele stesse attuando politiche di apartheid nei territori occupati, perché è un dibattito che avrebbe perso, così ha cambiato l’oggetto del contendere e la domanda è diventata: l’ex presidente Carter è un antisemita? Si cambiano le carte in tavola, si cerca di marginalizzarci e nel nostro caso veniamo perfino associati all’ex capo del Ku Klux Klan David Duke».
Potete spiegare al lettore italiano che cos´è questa lobby?
«E’ una coalizione informale di individui e associazioni che ha un’influenza davvero potente sulla politica americana in Medio Oriente. Ad esempio la politica ufficiale di ogni presidente americano dal 1967 ad oggi è stata di opporsi alla costruzione delle colonie nei Territori occupati, però gli Stati Uniti non hanno mai fatto una seria pressione su Israele affinché questo non avvenisse. Il comportamento degli israeliani con i palestinesi scatena la rabbia di molti nel mondo arabo e islamico e questa è una delle principali cause del terrorismo».
Perché ha così tanta influenza?
«Nel nostro Paese gruppi di interesse anche piccoli, ma mirati e ben organizzati sono in grado di influenzare la politica in modo profondo. E questo accade anche con la lobby della armi, degli agricoltori e con quella cubana della Florida. Inoltre la lobby israeliana non ha un’opposizione, non c’è nulla che la possa bilanciare: non esiste una lobby palestinese o araba».
Pensate che tutti i candidati alla Casa Bianca siano ugualmente condizionati?
«In questa campagna elettorale i candidati sono in disaccordo su tutto, dal controllo delle armi, all’aborto al welfare, ma su una sola cosa non c’è distinzione: il sostegno incondizionato ad Israele».
Pensate davvero che il conflitto arabo-israeliano sia l’alimento fondamentale dello scontro con la Siria, degli attacchi di Hezbollah o del terrorismo e della propaganda di Al Qaeda?
«No, attenzione, non pensiamo che sia l’unica ragione, pensiamo che sia una delle ragioni principali e questa distinzione linguistica è fondamentale. Il sostegno americano alla politica israeliana verso i palestinesi non è la causa principale del terrorismo, ma una delle cause»
Però non è possibile ignorare le guerre per il controllo del petrolio o il sostegno al regime saudita, come terreno fertile alla crescita dell’antiamericanismo.
«Certo Osama bin Laden ha trovato motivazioni nella presenza dei soldati americani in Arabia Saudita, o nel sostegno che diamo a regimi oppressivi come quello di Riad o del Cairo e nelle sanzioni americane in Iraq, ma penso che sia anche molto chiaro, come ha scritto anche la Commissione d’indagine sull’11 settembre, che una delle motivazioni è la politica degli Stati Uniti nei confronti di Israele».
Ma se Israele perdesse l’appoggio americano e occidentale non pensate che verrebbe messa in pericolo la sua esistenza?
«No, c´è questo mito che Israele sia Davide circondato da un Golia arabo, ma le cose non stanno così: è Israele ad essere Golia e gli arabi Davide, in particolar modo i palestinesi. Israele ha un trattato di pace con l’Egitto, con la Giordania e ne avrebbe avuto uno con la Siria nel 2000 se Barak non si fosse tirato indietro come scrive Clinton nelle sue memorie.
L’idea che sia più debole e che i suoi vicini siano determinati a distruggerla è un mito. I sauditi stanno cercando di spingere un’iniziativa di pace e tutti nel Medio Oriente sanno che Israele è un fatto e non può essere cancellata. E non dimentichiamo che ha l’esercito più potente della regione e le armi nucleari ed ha l’alleato più potente della Terra».
Veramente Ahmadinejad parla di cancellare Israele dalla carta geografica.
«Non mettiamo in discussione questo, nessuno dice di abbandonare Israele. Siamo molto chiari, se la sopravvivenza di Israele fosse minacciata gli Usa dovrebbero intervenire, ma la nostra tesi è che ci dovremmo comportare come facciamo con le altre democrazie, come trattiamo la Gran Bretagna, l’Italia o l´India. In altre parole se Israele si comporta in modo contrario all’interesse nazionale americano, allora gli Stati Uniti dovrebbero prenderne le distanze».
Senza la lobby israeliana come potrebbe cambiare la politica estera americana?
«Certamente gli Stati Uniti avrebbero fatto sentire la loro voce sulla necessità di rimuovere i coloni e probabilmente avremmo spinto gli israeliani a fare la pace con la Siria. Con tutto quello che ne sarebbe conseguito».
Che clima c’è intorno a voi? Avete avuto problemi nel mondo accademico?
«E’ vero che ci sono colleghi che non sono d’accordo con certe o molte delle nostre tesi ma questo va bene. Abbiamo scritto questo libro per generare una dibattito ma se chi non condivide le nostre tesi lo fa in modo razionale e rispettoso allora siamo perfettamente d’accordo e questo è successo molte volte. La verità però è che ci sono molte pressioni per far cancellare le presentazioni dei nostri libri e questo ci rattrista ma non ci sorprende».