Un articolo di Loretta Napoleoni, pubblicato ieri su La Stampa:
Al Monopoli del terrore vince Osama
Mosse inutili e indagini su false piste. La guerra ai soldi di Al Qaeda è persa
Alla fine della battaglia di Tora Bora un commando di marines Usa raggiunse le grotte dove Osama bin Laden e i suoi s’erano nascosti per settimane. Tra documenti, libri e cd trovarono casse zeppe di mazzette da 100 dollari. Uno dei militari raccontò: «Pensammo che senza quei soldi Al Qaeda non avrebbe trovato un nascondiglio sicuro in Pakistan». Sbagliavano: l’organizzazione poteva permettersi di abbandonare milioni di dollari. Il denaro non è mai stato un problema per Al Qaeda perché i suoi redditi provengono da un’infiltrazione nell’economia legale ed illegale basata sul modello sviluppato dalla Cia e dai suoi colleghi pakistani (l’Isi) negli anni ‘80, ai tempi dell’invasione sovietica: quando bin Laden lavorava per i sauditi in Afghanistan. I servizi avviarono l’industria dell’oppio afghano con l’aiuto di una manciata di trafficanti iraniani cacciati da Khomeini, e i profitti finivano ai mujaheddin impegnati nella guerra per procura ai sovietici. Il modello è stato applicato ovunque abbia attecchito Al Qaeda.
Il mercato di Quetta
Le finanze di bin Laden e dei Talebani nascono dalle attività illecite nel Waziristan, la regione pakistana al confine con l’Afghanistan dove Osama trovò rifugio dopo Tora Bora insieme con il guercio Mullah Omar. Quetta, la città dove i due soci stabilirono il loro quartier generale, ospita il più fiorente mercato di falsi dell’Asia Centrale. Dai televisori Sony fatti a Dubai ai falsi cinesi: e il mercato nero finanzia Al Qaeda. Succede anche in Iraq, dove – dice un rapporto confidenziale delle agenzie governative Usa della scorsa estate – dal 2006 l’insurrezione jihadista è diventata autosufficiente grazie all’economia di guerra. Le maggiori entrate si devono ai furti di benzina: paradossalmente, l’Iraq importa tra i 4 ed i 5 miliardi di dollari di carburante l’anno. Circa il 30% di quel carburante finisce nelle mani degli insorti. Altro denaro arriva dall’industria dei rapimenti e dal commercio di armi. Quelle rubate dal vastissimo arsenale di Saddam sono state ritrovate in Somalia, Sudan e Libano. Si capisce così che la ricostruzione della struttura finanziaria che sostiene Al Qaeda fatta all’indomani dell’11 settembre è del tutto scorretta. L’analisi di personaggi come Rohan Gunarathna – giudicato dall’Observer londinese «il peggiore esperto di terrorismo» – ha disegnato Al Qaeda come una multinazionale del terrore con tentacoli in Occidente. In realtà, a parte una manciata di speculazioni in borsa nei giorni antecedenti all’attacco alle due torri ed gli affari di alcuni uomini d’affari arabi, la presenza dei finanzieri di Osama in Occidente era minima. La struttura finanziaria di Al Qaeda era molto più semplice, quasi casereccia: ma aveva le potenzialità per diventare una minaccia globale con la rete della Dawa.
La chiamata di Dio
Dawa – letteralmente «la chiamata di Dio» – è una ragnatela di organizzazioni ultraortodosse e ultraconservatrici: istituti caritatevoli, società di import-export, finanziarie e banche islamiche create dai sauditi e dai governi del golfo Persico negli ultimi 40 anni. Ha come scopo di diffondere il credo wahabita anche in Occidente, e negli anni ‘80 fu usata per sovvenzionare i mujaheddin. Osama bin Laden ne diresse i flussi monetari tra Ryhad e Kabul. Negli anni ‘90 si estese a molti paesi con presenza musulmani, tra i quali quelli dell’ex Urss. La tecnica di penetrazione è la stessa: si bombarda di sovvenzioni un paese in via di destabilizzazione o già destabilizzato e se ne ricostruisce l’economia secondo i principi wahabiti. È successo in Albania, dove il sistema bancario è ormai quasi tutto nelle mani di istituti di credito sauditi. «Dall’11 settembre ad oggi Dawa è cresciuta a dismisura, e ora offre alla dottrina della violenza jihadista i mezzi per diffondersi globalmente». Sono le conclusioni dell’ultima riunione del gruppo di esperti organizzato dall’Institute of counter terrorism (Ict) israeliano.
Tattica sbagliata
Le tattiche applicate dall’Occidente per prosciugare le finanze di Al Qaeda ignorarono la Dawa, anche se gli attacchi contro le ambasciate americane in Africa del 1998 e quello del 2000 contro la corazzata Usa Cole nello Yemen portavano la sua firma. Agli Usa piaceva di più l’idea della multinazionale del terrore ubicata in casa sua perché dava ai falchi neo-conservatori il destro per gestire il terrorismo islamico come problema domestico. I due pilastri della politica occidentale – la risoluzione 1333 del consiglio di sicurezza dell’Onu e il Patriot Act – avevano come obiettivo l’attacco contro un’organizzazione operante in Occidente. E invece persino la lotta contro quella manciata di finanziatori del terrore che si trovavano in Occidente è stata persa. La risoluzione 1333 – precedente l’11 settembre – ha prodotto elenchi con migliaia di nomi e società sospettati di aiutare Al Qaeda. Ad oggi soltanto quattro indiziati sono stati processati e condannati: pesci molto piccoli, fiancheggiatori dell’attentato di Madrid del 2004. «I pesci grossi sono tutti sfuggiti: come il saudita Al Badi che conduce i suoi affari protetto dai regimi saudita e malese», racconta Vic Connors, uno degli esperti che monitorano le finanze di al Qaeda e dei Talebani per conto delle Nazioni Unite. «E poi c’è l’egiziano Youssef Nada: vive in Svizzera, ed è sfuggito alle indagini grazie alla scarsa cooperazione tra gli Usa ed i paesi dove questo faceva affari».
Una questione casalinga
All’indomani dell’11 settembre gli Stati Uniti presero la guida della lotta contro le finanze di al Qaeda. «Affrontarono il problema come se fosse una questione interna – ammette un ex agente della Cia – spesso lasciando la polizia e l’antiterrorismo esteri al buio». Clamoroso il caso di Nada: durante le indagini riuscì ad evitare il divieto di lasciare la Svizzera e si recò a Vaduz, sede del suo impero, dove liquidò tutto. «Le autorità di Vaduz non sapevano che Nada fosse nella lista degli inquisiti, quindi non si opposero alla liquidazione» spiega Rico Carish, che indagò sull’accaduto per le Nazioni Unite. Perché americani ed europei non collaborano. «Non sappiamo cosa hanno scoperto gli americani con gli interrogatori di Guantanamo – ammette un agente dell’antiterrorismo spagnolo -. E anche noi ci guardiamo bene dal rendere noti i risultati delle nostre indagini». Nel 2005, durante la conferenza su «Democrazia, sicurezza e terrorismo», il gruppo di esperti che revisionò le strategie della lotta finanziaria contro il terrore attribuì i magri risultati alla scarsa cooperazione. «Nonostante la nostra raccomandazione di creare un’organizzazione mondiale per far circolare le informazioni sia stata inserita nell’Agenda di Madrid a tutt’oggi nulla è cambiato» dice Michael Chandler, presidente della Ncc, società di consulenza sul finanziamento del terrorismo.
Il fallimento
Insomma: la lotta contro i soldi di Al Qaeda è fallita. Il Patriot Act – una legge antiriciclaggio – ha bloccato l’ingresso dei soldi del terrore negli Usa attraverso i paradisi fiscali. Non ha però ridotto l’ammontare globale del riciclaggio, né fiaccato le finanze dei terroristi. Grazie all’euro e all’assenza in Europa di una legislazione unitaria, i flussi sono stati spostati nel Vecchio Continente. Da anni l’antiterrorismo europeo sostiene che il denaro del terrore circola liberamente nei nostri paesi. Qualche esempio: nel 2004 fondi sauditi spediti da una banca di Dubai arrivarono alla moschea radicale di Via Quaranta, a Milano, attraverso i paradisi fiscali britannici delle Isole del Canale. Nel 2006, l’antiterrorismo danese sventò un attentato a Sarajevo: i terroristi, tutti con passaporto danese, avevano ricevuto denaro dal Golfo Persico. I biglietti d’aereo Londra-Karachi di due degli attentatori del 7 luglio, a Londra, furono acquistati da un reclutatore di origine pakistana nel Regno Unito. Già all’inizio del 2003 l’Occidente era consapevole che la strategia della guerra contro i soldi di Al Qaeda andava cambiata. Nel mondo occidentale banche e finanziarie vedevano di cattivo occhio il Patriot Act, che imponeva un monitoraggio sui flussi globali in dollari. «A nessuno piace avere le autorità finanziarie sul collo – ammette un banchiere della Ubs – gli investitori uscirono quindi dall’area del dollaro e si buttarono sull’euro». Molti economisti hanno attribuito l’improvviso deprezzamento della moneta verde, iniziato alla fine del 2001, alle politiche dell’antiterrorismo. Le multinazionali sono d’accordo e da anni conducono una serrata guerra di lobbies a Washington per modificare la legge: il governo sembra destinato a perdere anche questa battaglia. A giugno del 2007, l’autorità di Borsa Usa ha dovuto chiudere la pagina web dove elencava le società che facevano affari con i paesi canaglia, quelli che a detta di Bush finanziano il terrorismo. Nell’elenco c’erano Shell, Nokia e Siemens.
I soldi arrivano ancora
Ma la prova che l’Occidente ha perso la guerra contro i soldi del terrore viene dalle Nazioni Unite. Nell’ultimo rapporto semestrale si legge che Al Qaeda e i Talebani continuano a contare su entrate ricche. Questo contro un totale di 150 milioni di dollari congelati dall’11 settembre ad oggi: una goccia nell’oceano. Purtroppo non c’è lieto fine: gli Stati Uniti si ostinano a perseguire Al Qaeda Spa in casa loro, l’Europa non ha una legge omogenea. Nessuno ha investito per costituire unità speciali che seguano la pista del denaro del terrore. In Gran Bretagna il Parlamento non ne ha neppure discusso, nonostante un’unità simile avrebbe potuto prevenire gli attacchi del 7 luglio 2005. La costruzione del terzo pilastro della guerra contro il terrore si è arenata, tutte le energie sono andate ad erigere gli altri due: portare la lotta contro il terrorismo fuori dei confini americani e combattere la guerra preventiva. Un bilancio che a pochi giorni dal sesto anniversario dell’abbattimento delle Torri Gemelle dovrebbe far riflette politici e cittadini del mondo libero.