dal Corriere della Sera del 23 ottobre
L’autore è lo storico Niall Ferguson.
Pensavamo che 300 milioni di americani bastassero a dominare il mondo o per lo meno un paio di Stati in difficoltà, come l’Iraq, che conta 27 milioni di abitanti, e l’Afghanistan che ne ha 31 milioni. Eppure, nella stessa settimana in cui gli Stati Uniti superavano ufficialmente il traguardo dei 300 milioni, abbiamo ascoltato due sorprendenti ammissioni.
Ammissioni che testimoniano la portata della crisi che oggi minaccia il predominio dell’America. La prima è giunta mercoledì dal presidente Bush in persona. Davanti ai giornalisti che chiedevano se la situazione in Iraq fosse paragonabile a quella del Vietnam all’epoca dell’offensiva del Tet nel 1968 — un avvenimento che fu percepito dall’opinione pubblica (sebbene a torto) come l’inizio della fine per la difesa americana del Vietnam del Sud — il presidente ha ammesso che il confronto «potrebbe essere corretto».
Proprio il giorno dopo, il portavoce del comando militare statunitense in Iraq ha confessato che gli ultimi sforzi dell’esercito per ostacolare l’intensificarsi della guerra civile nell’Iraq centrale «non hanno soddisfatto le nostre aspettative di ridurre il livello della violenza». In altre parole, «abbiamo completamente fallito». Un anno fa simili ammissioni sarebbero apparse in caratteri cubitali su tutti i giornali. Oggi la gente si limita a stringersi nelle spalle: che l’Iraq sia diventato il nuovo «pantano» dell’America è ormai opinione comune.
Ma perché le cose stanno così? Meno di un secolo fa, prima della Grande guerra, la Gran Bretagna contava 46 milioni di abitanti, appena il 2,5 per cento dell’umanità. Eppure gli inglesi furono in grado di governare un vasto impero che abbracciava oltre 375 milioni di uomini, un quinto della popolazione del pianeta. Perché oggi 300 milioni di americani non riescono a controllare meno di 30 milioni di iracheni?
Tre anni fa, quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, ho scritto un libro intitolato Colossus, che offriva un pronostico riassunto nel sottotitolo:
Ascesa e declino dell’America. La mia tesi era che gli Stati Uniti non sarebbero stati una potenza imperiale duratura come quella inglese per tre motivi: il deficit del bilancio, il deficit di attenzione e, forse la cosa che più sorprende, il deficit del personale. Con qualche stoccata crudele, paragonavo l’impero americano a uno «stratega in pantofole… che compra a credito, si rifiuta di andare al fronte ed è pronto a perdere ogni interesse per le imprese difficoltose che vanno per le lunghe».
Con tristezza, osservo che la situazione in Iraq ha convalidato la mia analisi. Nessun Piano Marshall per il Medio Oriente si è materializzato per rimettere in piedi l’economia irachena. E il sostegno interno per la guerra si è dimostrato effimero. Mancanza di fondi. Sostegno traballante. Questi problemi non erano difficili da prevedere, dato che hanno caratterizzato anche le precedenti incursioni statunitensi in territorio straniero (l’occupazione post-bellica della Germania Ovest e del Giappone resta l’unica eccezione che conferma la regola). Il deficit del personale, tuttavia, resta un enigma.
Chi sa spiegarmi perché il terzo Paese al mondo per numero di abitanti dispone di così pochi militari nel teatro di guerra? La risposta ovvia è che, per rapporto all’entità della popolazione americana e alle disponibilità finanziarie illimitate del Pentagono, l’esercito americano appare ben poca cosa. Nel 2004 il numero complessivo del personale del Dipartimento della Difesa in servizio attivo era di 1.427.000 persone, di molto inferiore ai 2 milioni di detenuti nelle carceri nazionali. Di coloro che prestavano servizio attivo, appena un quinto era stazionato all’estero, e di questi solo 171 mila in Iraq. Il che equivale allo 0,06 per cento della popolazione complessiva degli Stati Uniti.
I militari attualmente in Iraq sono meno di 140 mila. E tanti furono, all’incirca, i soldati che gli inglesi spedirono in quella regione nel 1920 per sedare una rivolta, in un’epoca in cui la popolazione dell’Iraq era un decimo di quella attuale.
Il basso livello di partecipazione militare negli Usa è un po’ una tradizione nazionale. Cento anni fa, le forze armate corrispondevano all’1,6 per cento della popolazione francese, all’1,1 per cento di quella tedesca e allo 0,9 per cento di quella inglese, ma solo allo 0,1 per cento della popolazione americana. La differenza è che oggi gli Stati Uniti stanno cercando di svolgere il ruolo delle potenze europee di allora, ma a questo impero, per dirla schiettamente, manca un numero adeguato di legioni.
Ad aggravare la situazione, il Dipartimento della Difesa è guidato dal 2001 da un uomo che crede fermamente che meno equivale a più. È stato Donald Rumsfeld, come sappiamo oggi, a respingere ripetutamente i suggerimenti degli esperti che raccomandavano invece il dispiegamento di diverse centinaia di migliaia di truppe per assicurare la stabilità in Iraq alla fine della guerra. È stato lui a voler ridurre gli effettivi, proprio nel momento in cui la massima sicurezza sarebbe stata garantita da un numero consistente di truppe.
Nel 2003, ho sostenuto che era possibile correggere questo errore se la leadership dell’America avesse studiato la storia. Adesso mi rendo conto di aver peccato d’ingenuità. Perché la politica sull’Iraq non si è mai basata su una valutazione razionale delle effettive necessità di quel Paese. La preoccupazione principale di Rumsfeld pare sia stata invece quella di vincere la guerra interna di Washington tra il Dipartimento della Difesa, i capi di stato maggiore e il Dipartimento di Stato, proprio come il compito precipuo del vice presidente Dick Cheney era quello di soddisfare la «base» repubblicana, con grossi tagli fiscali e vittorie a buon mercato.
Negli anni Venti, lo storico tedesco Eckart Kehr sosteneva che la politica estera del Kaiser era subordinata al «primato della politica interna», vale a dire che tutte le decisioni su diplomazia e strategia erano condizionate da macchinazioni politiche assai miopi, del tipo: se una forte marina militare poteva soddisfare le richieste della lobby industriale, se tariffe più elevate potevano accontentare i grandi proprietari terrieri prussiani.
Sono arrivato alla conclusione che la politica estera americana è afflitta dalla medesima patologia. Il primato della politica interna — sotto forma di lotta interna negli apparati burocratici e di manipolazione dell’elettorato — spiega perché l’impresa irachena sia stata, sin dall’inizio, condannata a un dispiegamento insufficiente di personale militare.
Il deficit di personale tuttavia non riguarda solo la politica. «Adesso siamo un impero — un collaboratore presidenziale aveva dichiarato al giornalista Ron Suskind in un momento di entusiasmo nel 2004 — e quando passiamo all’azione, sappiamo creare la nostra realtà». Ma forse la realtà è che gli Stati Uniti sono demograficamente incapaci di agire come un impero tradizionale. Dopo tutto, l’impero corrisponde a un’esportazione di gente, pionieri e coloni. Gli Stati Uniti, invece, sono importatori di persone, con quasi un milione e mezzo di nuovi arrivi ogni anno.
Nel mio libro Colossus suggerivo che l’Unione Europea era un nuovo tipo di entità politica, un impero che si espandeva per consenso e non per coercizione. Ora capisco quello che non vedevo allora: che dietro la facciata di potenza militare, anche gli Stati Uniti si espandono tramite l’importazione, e non l’esportazione, di persone.
L’era dell’imperialismo corrisponde a un periodo in cui la popolazione europea cresceva così rapidamente da tracimare al di là degli oceani, conquistando e colonizzando ovunque sbarcavano gli emigranti. In nessun luogo al mondo quel processo ebbe risultati più spettacolari come nel continente nord americano. Oggi il flusso di migranti verso gli Stati Uniti continua ancora e corrisponde circa alla metà della crescita complessiva della popolazione, ma proviene in prevalenza dall’Asia e dal Sud America, non dall’Europa. Nel frattempo quelle aree del mondo, che gli europei avevano colonizzato in passato, stanno a loro volta colonizzando l’Europa.
Forse, allora, l’invasione dell’Iraq è stata un anacronismo, un ritorno a un’era in cui gli imperi europei e i loro discendenti, fondati dai colonizzatori, come gli Stati Uniti, potevano effettivamente dominare il resto del mondo. Nel 2050, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, i dieci Paesi più popolosi al mondo saranno asiatici o africani, con solo due eccezioni: il Messico e gli Stati Uniti. Ma attenzione: secondo l’Ufficio del Censimento, una buona quarta parte della popolazione statunitense sarà di origine sudamericana e solo un abitante su due sarà un bianco di estrazione non ispanica.
Mi si chiede spesso perché il sottotitolo del mio nuovo libro è: Il declino dell’Occidente. Chissà!