Sempre dello storico Niall Ferguson, dal Corriere del 15 dicembre
«La persuasione comporta sia premi che sanzioni – ebbe una volta a rimarcare Henry Kissinger -, quindi c’ è un elemento di implicita coercizione». La scorsa settimana, è stato dato alle stampe un capolavoro della persuasione. Qual è, però, il pubblico da persuadere? E con quale bastone? Con quale carota? La maggior parte degli osservatori ha interpretato il rapporto dell’ Iraq Study Group come una ben infiorettata ammissione di sconfitta. E, come prevedibile, tale è stata anche la reazione del presidente Bush. «Io… sono convinto che vinceremo – ha dichiarato giovedì ai cronisti -, abbandonare il Paese ora è il modo migliore per garantire il fallimento» Chiosando una delle raccomandazioni-chiave formulate dal rapporto, inoltre, Bush ha auspicato senza peli sulla lingua che Iran e Siria «non si scomodino a uscire allo scoperto» per intavolare negoziati sull’ Iraq se non «comprendono il proprio impegno a non finanziare i terroristi» e se gli iraniani non «daranno prova della sospensione del programma di arricchimento dell’ uranio». Eppure, chi si scomodasse a leggere attentamente il rapporto dello Study Group – invece di dare una scorsa fugace all’ executive summary -, vedrebbe che esso né propone di «lasciare» l’ Iraq, né ripone alcuna concreta speranza nell’ aiuto di Iran e Siria. Anzi, va nell’ opposta direzione. Nell’ arena delle grandi scelte strategiche, la persuasione è più questione di arte retorica che non scientifica. Il primo passo fondamentale consiste nell’ identificare il pubblico-target cui ci si rivolge. La maggior parte di quanti hanno letto il rapporto è convinta che esso sia indirizzato al presidente Bush. Sbagliato. Il primo destinatario è il Congresso, e soprattutto la nuova maggioranza democratica in entrambe le Camere. E l’ obiettivo non è persuadere un presidente testardo a riconoscere la sconfitta. Piuttosto, persuadere i legislatori che il ritiro dall’ Iraq – indipendentemente dai desiderata dei loro elettori – non è tra le opzioni sul tavolo. Altro destinatario privilegiato, i governi arabi nello scacchiere mediorientale. Per loro, il messaggio è lo stesso: ciò che più dovete temere è l’ uscita di scena degli Usa dalla regione. In secondo luogo, il persuasore deve prospettare sviluppi futuri inquietanti qualora le proposte e misure avanzate non venissero adottate. Lo scenario più nefasto abbozzato dall’ Iraq Study Group è quello di cui scrivo dallo scorso febbraio: «Conflitti settari, escalation della violenza e un’ involuzione nel caos» che porteranno al «collasso del governo iracheno e a una catastrofe umanitaria». Ecco i passaggi più importanti dell’ intero rapporto: «I Paesi vicini potrebbero entrare in gioco. I conflitti tra sciiti e sunniti potrebbero dilagare… in tutto il mondo islamico. Potrebbero avere luogo insurrezioni di matrice sciita – con buone probabilità fomentate dall’ Iran – negli Stati a guida sunnita. Conflitti settari di tale portata potrebbero scoperchiare un vaso di Pandora pieno di problemi». Le conseguenze andrebbero ben al di là della vittoria di Al Qaeda sul terreno della propaganda e dell’ umiliazione inflitta agli Usa, grande motivo di preoccupazione a Capitol Hill. Nell’ ipotesi di una conflagrazione di tale portata, nessun governo mediorientale – con l’ eccezione del regime fondamentalista sciita di Teheran – si sentirebbe al sicuro. Ed è proprio per questo motivo che i leader arabi farebbero bene a scongiurare un’ uscita di scena degli Usa. Da ultimo, il persuasore dovrebbe proporre rimedi che possano allettare il pubblico-target. Ciò che l’ Iraq Study Group ha senz’ altro fatto. Fin troppo. Ma occorre scandagliare parola per parola tutte e 79 le raccomandazioni. Prendiamo la già ventilata «offensiva diplomatica per catalizzare il consenso della comunità internazionale finalizzata alla stabilizzazione dell’ Iraq e della regione», compresi l’ Iran, un tempo membro osteggiato dell’ «asse del male» teorizzato da Bush, e la Siria, tutt’ altro che amica della superpotenza. «Una nazione può e deve coinvolgere i propri avversari e nemici», asserisce il rapporto (in un passaggio sicuramente siglato dal copresidente James Baker). Di più, deve offrire loro «incentivi e disincentivi». Da notare il secondo sostantivo. Baker non sta chiedendo all’ America di andare a fare la questua a Damasco e Teheran. Piuttosto, come ha spiegato agli organi di stampa settimana scorsa, di «scalzare i siriani» facendo appello alla solidarietà dei sunniti, e di isolare il regime iraniano mettendone a nudo l’ «atteggiamento intransigente». In altre parole, riunire in una stanza tutti i leader dei Paesi vicini dell’ Iraq e giocare a «indovina lo sciita». Leggiamo attentamente, ora, il capitolo sul ritiro delle truppe. «Entro il primo trimestre 2008 – spiega il rapporto -, tutte le brigate da combattimento non più necessarie ai fini della capacità di protezione potrebbero completare il ritiro dall’ Iraq». Queste parole sono state quasi unanimemente interpretate come il primo passo verso l’ uscita di scena. Si parla di «ritiro dall’ Iraq», giusto? Sbagliato. Analizziamo più da vicino qualche altra raccomandazione formulata dal rapporto. Lo staff militare Usa embedded con i battaglioni e le brigate dell’ esercito iracheno dovrebbe passare dalle attuali 3 o 4 mila unità a 10-20 mila. Le unità americane deputate all’ addestramento delle forze di polizia dovrebbero essere incrementate. Il dipartimento della giustizia Usa dovrebbe guidare il ciclo di riforme organizzative per quanto riguarda il ministero dell’ Interno. Occorre ingaggiare un senior advisor per la ricostruzione economica del Paese. Il dipartimento di Stato dovrebbe addestrare personale deputato alle mansioni civili nel quadro del complesso intervento di stabilizzazione, e istituire un Foreign Service Reserve Corps, un ulteriore corpo diplomatico. Vi pare un «ritiro», questo? A me sembra più l’ intenzione di rimanere. Solo per stavolta, non roviniamo tutto. I media si sono concentrati sull’ eventualità di una riduzione delle truppe Usa in termini quantitativi – che è in ogni caso vincolata all’ assenza di «sviluppi imprevisti a livello di sicurezza sul terreno» – non cogliendo l’ implicito auspicio di un miglioramento qualitativo. Chapeau, dunque, a Baker e a tutto il suo team. Si rivela, la loro, una classica mossa persuasiva. Il pubblico-target è stato ben scelto. Il peggiore scenario prospettato è apparentemente plausibile. E le raccomandazioni sono formulate con tanta oculatezza da auspicare apparentemente il ritiro, quando in realtà ciò che si chiede è un potenziamento dell’ impegno militare. Non è certo l’ exit strategy che volevano gli americani. Ma, forse, potrebbe scongiurare l’ eventualità di un Armageddon in Medio Oriente.