Un’analisi di Ottolenghi, su Il Riformista di ieri
Ogni guerra dà vita ai propri miti e la recente guerra in Libano non ha fatto eccezione. I miti di questa guerra sono che Israele è stato sconfitto e Hezbollah ha vinto, che a provocare questa sconfitta sia stata la riluttanza di Israele a subire delle perdite mentre la vittoria di Hezbollah ha distrutto l’immagine di Israele quale forza militare invincibile. Come tutti i miti, molto del loro fascino si basa su una erronea percezione della realtà. Vittoria e sconfitta, in guerra, sono determinate dal raggiungimento (o dal mancato raggiungimento) degli obiettivi che le parti belligeranti si sono prefisse all’inizio delle ostilità. Se si applica questo criterio agli obiettivi che Israele si era posto appena cominciata la guerra (il rilascio dei due soldati rapiti e l’annientamento di Hezbollah), Israele non li ha raggiunti. Ma questa guerra non dovrebbe essere giudicata soltanto in detti termini, poiché a iniziarla è stato Hezbollah e non Israele. Per stabilire chi ha vinto e chi ha perso, bisogna anche chiedersi che cosa si fosse prefisso di ottenere Hezbollah nel momento in cui ha attaccato Israele e se, nel corso del mese di guerra, sia riuscito a raggiungere i suoi obiettivi.
Gli obiettivi di Hezbollah. La definizione degli obiettivi di Hezbollah può risultare più torbida di quanto non lo sia per quelli di Israele. Ce ne erano di dichiarati e di non dichiarati: i primi sono noti, i secondi li possiamo immaginare. Hezbollah ha dichiarato la propria intenzione di sequestrare soldati israeliani e usarli come elemento di scambio per ottenere il rilascio di tre prigionieri libanesi rinchiusi nelle carceri israeliane. E voleva anche «liberare» le Sheeba Farms. Rispetto a questi due obiettivi, la guerra di Hezbollah è stata un fallimento. Israele ha ancora il controllo delle Sheeba Farms alle quali fa riferimento la risoluzione Onu 1701 in cui si richiede al Segretario Generale di presentare, entro 30 giorni, un rapporto sul loro stato. Ma, in passato, l’Onu ha già deliberato sulla questione e gli Usa avevano garantito a Israele che non ci sarebbero state sorprese al riguardo. A meno che l’Onu adesso faccia un brusco dietrofront, è difficile capire come Hezbollah possa considerare un successo la menzione delle Sheeba Farms nella risoluzione. I prigionieri sono ancora rinchiusi nelle carceri israeliane, ormai in compagnia di decine di compatrioti. Certo, questo governo israeliano potrebbe finire col liberare i tre prigionieri libanesei, ma potrebbe, forte della risoluzione 1701, negoziare solo il rilascio di quelli catturati quest’estate. E se così sarà, vien difficile considerarla una vittoria.
Cosa dire degli obiettivi non dichiarati di Hezbollah? Si può immaginare che Hezbollah volesse ottenere quanto segue:
1.aprire un secondo fronte, mostrare solidarietà con i palestinesi e creare un collegamento tra il rilascio dei prigionieri israeliani catturati da Hezbollah e le sorti del caporale Gilead Shalit, catturato da Hamas al confine tra Gaza e Israele il 25 giugno;
2.promuovere, tramite Hezbollah, il ruolo di Siria e Iran quali personaggi chiave sullo scenario israelo-palestinese;
3.distogliere l’attenzione della comunità internazionale dal programma nucleare dell’Iran;
4.afforzare la posizione di Hezbollah quale paladino delle cause del mondo arabo e quindi rafforzare la posizione dell’Iran all’interno di esso;
5.consolidare il proprio potere in Libano, assumendo il governo del paese e infliggere il colpo finale all’ormai moribonda rivoluzione dei cedri.
I risultati di Hezbollah. Osserviamoli da vicino:
1. Hassan Nasrallah non è riuscito a unire Libano e Gaza in un unico conflitto con un’unica soluzione nel quale lui stesso svolgesse un ruolo chiave. È perfino riuscito, per ben cinque settimane, a distogliere da Gaza l’attenzione del mondo, lasciando così alle forze di difesa israeliane la possibilità di bombardare, uccidere e distruggere a volontà. Iran e Siria, impegnate ad aiutare lui in Libano, non hanno potuto venire in soccorso di Hamas a Gaza. L’intervento di Nasrallah, in realtà, è stato d’aiuto a Israele e non ai palestinesi.
2. Contrariamente all’opinione condivisa da molti, secondo cui Siria e Iran dovrebbero essere coinvolti per svolgere un ruolo chiave e la situazione di Gaza andrebbe inclusa nelle trattative Onu, la risoluzione 1701 non fa alcun riferimento ai due paesi. Nel frattempo, Nasrallah ha fatto fare un passo indietro ai già limitati successi ottenuti dall’Iran nei negoziati con la comunità internazionale sulla questione del nucleare. Prima del 12 luglio, la decisione degli Usa di prendere parte alle trattative aveva rappresentato, per l’Iran, un importante primo risultato. L’influenza dell’Iran e il suo ruolo attivo nella destabilizzazione del Libano non erano più tema di negoziato e l’offerta degli Usa li aveva tacitamente messi da parte. Dopo la guerra in Libano, il sostegno fornito dall’Iran al terrorismo e la sua interferenza nel processo di pace in Medioriente sono di nuovo sul tavolo dei negoziati, rendendo la posizione iraniana meno forte dell’inizio di quest’estate. E questo, grazie all’avventurismo di Nasrallah.
3. Durante il conflitto in Libano, l’Onu ha emesso una risoluzione in cui dava un ultimatum all’Iran. E nonostante le ovvie divisioni tra Europa e America emerse allo scadere dell’ultimatum giovedì scorso, il ruolo indiscusso di Teheran nel fornire armi, addestrare, finanziare e dare sostegno a Hezbollah ha indebolito le argomentazioni di chi voleva assumere una linea meno dura con l’Iran. L’orologio della diplomazia gira ancora, inesorabilmente, in senso contrario all’agenda di Teheran, sebbene lo faccia lentamente. In più, l’Iran ha perso l’elemento sorpresa in un futuro possibile conflitto con Israele e Stati Uniti. L’arsenale di Hezbollah era un elemento centrale della deterrenza iraniana di fronte alla minaccia di un attacco preventivo contro le sue installazioni nucleari. Ora Israele e Usa ne conoscono la potenza di fuoco, la dottrina di combattimento, e i mezzi di cui dispone. Israele ne ha severamente danneggiato la potenza di fuoco. Teheran ha perso una carta importante nel complicato scacchiere mediorientale ora che un futuro attacco di Hizbullah risulta prevedibile nei metodi e contenibile nell’intensità.
Costi e benefici.
4. All’interno del mondo arabo e musulmano, la posizione di Hezbollah e Nasrallah è migliorata e quella che è stata percepita come una loro vittoria ha infastidito i moderati. Nello stesso tempo, ci si può chiedere quale sia la portata di questo obiettivo raggiunto. Per il mondo arabo, Hezbollah era già assurto al ruolo di mito grazie al rapido ritiro di Israele dal Libano nel maggio del 2000. Ma quest’ultima guerra ha poi veramente incrementato in maniera significativa il prestigio di Hezbollah, considerati il prezzo che il Libano ha dovuto pagare e l’assenza di una reale vittoria? Le capitali arabe, inoltre, non hanno fatto i loro calcoli politici soltanto in base alla temperatura registrata fra la gente comune, l’interesse nazionale continua ad essere imperativo e lo sforzo dell’Iran per incrementare la propria influenza sulla regione tramite una guerra per procura non è sfuggito alle diplomazie dell’area interessata, da Rabat a Muscat.
I miti sono buoni per la retorica dei più radicali del Medioriente. Ma si può davvero credere che il colpo subito da Hezbollah e il caro prezzo pagato dal Libano non incidano sui calcoli fatti da Teheran e Damasco? Possono senza dubbio permettersi di pagare un prezzo del genere in una guerra per procura in cui Libano ed Hezbollah sono l’oggetto delle ire di Israele. Ma se il potere di Israele avesse toccato Damasco e l’esercito siriano, o Teheran e l’esercito iraniano anziché Beirut e Hezbollah, si sentirebbero ancora sicuri, al comando, i leader di questi paesi? Avrebbero ancora la sensazione che la loro influenza stia aumentando all’interno della regione? In un’analisi costi-benefici, la mitologia non è molto d’aiuto. Quando le macerie le vedi attraverso la finestra del palazzo presidenziale e non sullo schermo della TV, devi fare i conti con la realtà. E guai a chi pensa che l’immagine sia la sola cosa che conta nel Medioriente. La critica a Hezbollah non si è attenuata, la minaccia che rappresenta per gli interessi arabi non è stata oscurata dalle sue glorie.
5. Probabilmente la rivoluzione dei cedri è finita e l’intenzione di Nasrallah era di darle il colpo di grazia per prendere in mano il traballante governo del Libano. Nel momento in cui si pensa che Nasrallah ha forse conseguito entrambi gli intenti, si potrebbe anche considerare che la rivoluzione dei cedri era già moribonda dopo che molti dei suoi giovani leader di maggior rilievo sono stati uccisi o sono stati oggetto di intimidazioni. Il controllo di Hezbollah sulle strutture civili, militari e dell’intelligence libanese era aumentato. L’influenza della Siria era tutt’altro che scomparsa e i moderati, con le loro divisioni, avevano fatto molto per danneggiare la loro stessa causa ancor prima che Hezbollah desse inizio alla sua guerra. Se Israele non avesse reagito, Hezbollah avrebbe potuto farsi forza delle proprie vittorie per andare avanti sulla strada che portava direttamente al potere. Vero è che la risoluzione 1701 dell’Onu è un riconoscimento a Hezbollah. Ma questa guerra, e l’intervento internazionale che le farà seguito, potrebbero costituire per Hezbollah quella sfida che la debole società civile del Libano non è riuscita a lanciare.
Il mea culpa. Non tutto è andato bene per Nasrallah. E del resto, nessuno, quando vince, chiede scusa alla nazione, come ha fatto Nasrallah pochi giorni fa. Nessuno, quando vince, ammette di aver commesso un grave errore. E nessuno, nel mezzo di una guerra che sta vincendo, chiede un cessate il fuoco. Eppure, tutto questo lo ha fatto Nasrallah, non Israele.
Sta ad Israele e alla comunità internazionale non perdere l’opportunità di questo risultato dunque. Il mito della vittoria di Hezbollah non è altro che questo: un mito. Significa che Israele non ha perso. Certo, non ha neanche vinto. Ma non si devono ignorare i successi militari e la potenziale efficienza delle forze militari israeliane che sono riuscite a impedire, almeno in parte, che Hezbollah raggiungesse alcuni dei suoi obiettivi. Le forze combattenti di Hezbollah sono state drasticamente ridotte. Con oltre 500 miliziani uccisi (secondo le stime, tra il 10 e il 40 per cento delle forze combattenti), Hezbollah avrà bisogno di anni per ritornare al livello che aveva prima della guerra. Israele non è riuscito a distruggere l’arsenale di katyusha di Hezbollah, ma ha inflitto un severo colpo a quello strategico dei missili a lunga gittata. In pochi hanno notato che, in un determinato momento della guerra, Nasrallah ha smesso di minacciare di colpire Tel Aviv se Israele non avesse smesso di colpire Beirut, per parlare invece di Haifa. Questo perché non era più in grado di raggiungere Tel Aviv. Con un arsenale vuoto, la capacità di Hezbollah di poter affrontare seriamente una nuova sfida è ormai ridotta. Senza alcun dubbio, Iran e Siria stanno già provvedendo al riarmo, ma ci vorranno dei mesi per portare a termine un’attività che, ormai, la comunità internazionale non continuerà a ignorare come aveva fatto in passato.
Il caso Tsahal. Cosa dire sul mito dell’invincibilità di Israele che questa guerra avrebbe infranto, e su quello secondo cui la riluttanza di Israele ad assorbire il colpo delle perdite avrebbe indotto Israele a tirarsi indietro?
Anche in questo caso, si tratta soltanto di miti. L’«infranta» invincibilità di Israele è un adagio che si ripete al termine di ogni singolo round del conflitto mediorientale. Prendiamo le guerre convenzionali: Israele ha subito una forte sconfitta a Latrun e Gush Etzion nel 1948. Ha subito gravi perdite a Mitla Pass nel 1956 e durante la battaglia di Gerusalemme del 1967. Soltanto le guerre del 1956 e del 1967 sono state brevi, rapide e decisive. Nel1948, Israele impiegò quasi un anno per ottenere una fragile tregua lungo labili frontiere. La guerra di attrito che ha fatto seguito al 1967 ha costretto Israele a dissanguarsi per tre anni lungo il Canale di Suez. Nel frattempo, Israele era impegnato in una brutta guerra con la Olp lungo il confine con la Giordania, una guerra in cui la vittoria di Karameh (uno scontro tra Israele e i combattenti della Olp costato a Israele molte vittime e in cui i guerriglieri dell’Olp non se la diedero a gambe) ha superato la prova del tempo come dimostrazione della «infranta invincibilità di Israele». Un altro mito, fondamentale per una generazione di rivoluzionari. Ma, una volta messo alla prova, non è stato il mito di Israele ad andare in frantumi, bensì quello di Karameh.
Poi è arrivata la guerra del 1973, una guerra in cui Israele vinse a caro prezzo (2.600 morti), dopo soltanto 18 giorni di cruenti combattimenti e un massiccio ponte aereo americano. E nonostante questo, con i carri armati israeliani a 100 chilometri dal Cairo fermati dall’allora Segretario di Stato Henry Kissinger, gli egiziani si ostinano a celebrare l’anniversario della guerra come se fosse stata una vittoria. Nel 1982 Israele non ha esattamente vinto la guerra del Libano in sei giorni e ha impiegato oltre un mese per raggiungere Beirut. La resistenza opposta dall’Olp lungo il cammino non era trascurabile e anche prima di impantanarsi nelle sabbie mobili libanesi, Israele aveva pagato un caro prezzo. Nessuno ricorda la battaglia di Sultan Ya’aqub come una vittoria di Israele. E quando Israele si è ritirato, 18 anni dopo, la partenza dal Sud del Libano è stata di nuovo salutata con grande entusiasmo come crollo del mito dell’invincibilità di Israele.
La lezione dell’Intifada. Che dire delle guerre non convenzionali, di Israele? Le guerre con l’Olp, a intermittenza, sono durate 18 anni, finché le forze armate palestinesi non sono state cacciate dal Libano (e non grazie al lavoro della diplomazia, ma con l’utilizzo, da parte di Israele, della forza). Per arrivare ad avere misure antiterrorismo veramente efficienti c’è voluto del tempo, e un numero illimitato di vittime. Ancora oggi, sebbene efficaci, non sono infallibili al 100%. In generale, da sempre Israele impara velocemente a rispondere alle minacce inaspettate e se si sente minacciato assorbe vittime senza batter ciglio. Israele è riuscito ad annientare la prima Intifada solo alla fine del 1990 e poi ci sono voluti altri tre anni e un accordo politico per soffocare definitivamente la rivolta. Nella seconda Intifada, ci sono voluti 18 mesi a Israele per trovare una risposta efficace; quando, alla fine del marzo 2002, è stata avviata l’operazione “Defensive Shield”, Israele ha sferrato un attacco ai palestinesi durato 6 lunghe settimane, con scontri cruenti tra quartieri che hanno causato numerose vittime e scontri che si concentravano in aree urbane limitate. Nonostante tutto, il numero di riservisti (la struttura portante dell’esercito israeliano) accorsi alla chiamata è stato da record. Nel corso dell’Intifada, Israele ha subito un numero di vittime senza precedenti sul fronte interno, mentre il mondo arabo idolatrava gli attentatori suicidi visti come strumento per infrangere, ancora una volta, il mito dell’invincibilità d’Israele. Un mito che, tuttavia, alla fine ha mostrato di essere molto più resistente dei kamikaze di cui si pensava che l’avrebbero distrutto.
Ci troviamo pertanto di fronte a un modello: per Israele, ogni guerra rappresenta una nuova sfida. Ogni volta, Israele ha bisogno di tempo per assorbire il colpo, comprenderne la natura e i meccanismi e quindi apportare, alla sua linea di combattimento, le necessarie modifiche. In passato Israele ha subito sconfitte, e ha imparato dagli errori, mostrando nelle guerre successive migliori capacità di combattimento. Oggi, nella logorante guerra contro Hezbollah, la condotta israeliana non è diversa rispetto al passato. Pagando un caro prezzo, ha inflitto al nemico un colpo severo, anche se non decisivo. Certamente, anche da questa esperienza imparerà a mettere in atto, la prossima volta, una risposta offensiva più efficace.
Che dire dell’ultimo mito, dell’idea che Israele non sia più in grado di metabolizzare le perdite? Come si spiega allora la vittoria di Israele durante la seconda Intifada? Il terrorismo palestinese ha causato oltre mille vittime, e nonostante tutto la società israeliana ha tenuto duro, letteralmente. Negli ultimi scontri, è stata la leadership israeliana a tirarsi indietro di fronte al rischio di vittime, non il paese, che, da sinistra a destra, si è mostrato compatto nel dare un supporto senza precedenti, per mettere in atto una campagna più aggressiva e decisiva, così da annientare Hezbollah una volta per tutte. Il fronte interno israeliano non ha ceduto, nonostante un mese passato nei rifugi del nord e i forti punti deboli della sua macchina logistica e di coloro a cui questa macchina era stata affidata. Il popolo israeliano ha dato una prova di resistenza e di tenace volontà nel combattere anche nei casi in cui una raffica di missili, reale e concreta, colpisce il paese da più parti.
Scenari regionali. Quanto al futuro, i miti e le percezioni erronei su cui essi si fondano, contribuiranno senza dubbio alla fase successiva della guerra. Quando ciò accadrà, bisognerà prestare attenzione a come i due popoli in guerra rispondono a quelli che ciascuno considera i propri successi e le proprie sconfitte.
Israele avvierà probabilmente una commissione d’inchiesta, i cui risultati potrebbero significare la fine della carriera per diversi leader militari e politici. Il paese rifletterà sui propri errori. Si dorrà per le morti inutili di tanti uomini valorosi, a seguito degli errori commessi. Se la prenderà con i responsabili, che dovranno pagare un alto prezzo. Ma otterrà le risposte che cerca.
E il Libano, invece? Cosa fa Nasrallah tra le rovine di Beirut, le macerie dei ponti sul Litani e i crateri che punteggiano le strade? Proclama la vittoria. E il primo ministro libanese, Fouad Siniora? Piange davanti alle telecamere, elogia Hezbollah e si aggrappa al mito della vittoria anche quando le prove della sconfitta sono lampanti. Non avvieranno nessuna commissione indipendente in Libano, non convocheranno generali, politici e alte gerarchie sciite per metterli di fronte alle loro responsabilità. L’ultima volta che un paese arabo ha avviato una commissione d’inchiesta interna su una sconfitta militare è stato in Iraq, nel 1949. Un precedente che rimarrà un’eccezione. I libanesi non si chiederanno come un agente straniero che ha assunto il controllo di oltre metà del paese infiltrandosi nei più alti livelli governativi, li abbia coinvolti nella guerra di qualcun altro. Metteranno in disparte la necessità di comprendere cosa non ha funzionato e proclameranno vittoria. In questo modo, quando ci sarà una nuova guerra, il “mito distrutto” risorgerà nuovamente perché la realtà ha il sopravvento sui miti della retorica araba.