di Carlo Panella, su Il Foglio di oggi
Stupisce l’intervista rilasciata da Massimo D’Alema al Corriere, e non solo per il consueto eccesso di protagonismo a suon di “Bye, bye Condi” e pescatori siciliani ammirati da tanta confidenza. Stupisce per l’autoelogio simpaticamente napoleonico – “noi abbiamo contribuito all’apertura di una fase diversa del mondo” – che meriterebbe un po’ di verifica nei fatti, prima di essere pronunciata, magari da altri. Ma stupisce ancora di più per l’analisi di fondo su cui si regge il ragionamento, sintetizzata nella frase: “E’ il ritorno della politica, dopo l’ossessione dell’uso della forza come sola risorsa”. Questo, infatti, è uno slogan, una battuta da comizio, che deforma la strategia applicata da Bush. La dottrina di politica estera degli Stati Uniti – di notevole spessore teorico – è stata definita il 20 settembre 2002 nella Strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America e poi nel progetto per il Grande medio oriente, presentato da Bush nel vertice di Savannah del G8 del giugno 2004. Il tutto accompagnato dal finanziamento di decine di miliardi di dollari a quel “ritorno alla politica”, il cui merito oggi D’Alema si attribuisce. Alla Farnesina sono disponibili i dossier da cui ben risulta che nessuna “ossessione dell’uso della forza” ha guidato Bush in Israele (dove ha appoggiato la strategia di disimpegno da Gaza di Sharon che oggi evolve nella scelta di Olmert di accettare una garanzia internazionale ai confini); in Sudan (dove Washington è riuscita a chiudere una guerra civile che aveva fatto un milione di morti); in Marocco (premiata dall’America come “nazione più favorita”, dopo le riforme a favore delle donne), e altrove. Dal dossier del Libano, peraltro, risulta che la politica multilaterale Usa-Onu-Ue è iniziata nel 2004, non oggi, con la risoluzione delle Nazioni Unite 1.559, concertata tra Washington, Parigi e Bruxelles. L’asse portante della strategia americana non è affatto “l’uso ossessivo della forza”, ma la diffusione strategica della parità uomo-donna, della libera stampa e associazione e dell’accesso di massa all’istruzione, con la consapevolezza che “vi sono vari islam” e che, come spiega il sottosegretario americano per il medio oriente, Liz Cheney, “la democrazia avanza in modo diversificato, vuoi con processi elettorali, vuoi con riforme sui diritti umani che addirittura li precedono, perché ogni paese islamico ha scelto diversi ordini di priorità”. Quando ha impiegato la forza militare, in Afghanistan e in Iraq, Washington l’ha finalizzata a progetti politici di “nation building”. Quelli che oggi sono carenti in Libano. D’Alema ha ragione a rivendicare un’iniziativa che ha raccordato Stati Uniti, Europa, Onu e Israele: lo scenario internazionale che la Farnesina ha contribuito a determinare è sicuramente eccellente, indubbiamente multilaterale. Ma quale è la strategia di medio periodo, al di là del meritorio cessate il fuoco? L’ostacolo politico al contagio fondamentalista In Iraq era chiara: prima dell’uso della forza, Washington ha concordato con tutti i partiti anti-Saddam un percorso costituzionale, che è stato rispettato. Nessuno dei contraenti del patto siglato a Washington nell’agosto 2002 ha defezionato; per tre volte gli iracheni hanno votato – protetti anche dalle armi italiane – e oggi il processo costituzionale iracheno è il principale ostacolo politico al contagio del fondamentalismo teocratico iraniano per cui combatte Hezbollah. Mille gli errori, ammette Condi, ma quella strategia regge, nonostante i colpi del terrorismo. Ma ora, quale è la strategia in Libano? Se si impernia – come pare – sull’intesa con Fouad Siniora, è bene che si tenga conto che il suo esecutivo non ha potere; non è una coalizione d’unità nazionale, è un fragile patto di non belligeranza tra blocchi etnici e religiosi, armati e che tentano di allearsi a Hezbollah a scapito degli avversari. Se si basa, come dice D’Alema, sulla fiducia che il Partito di Dio segua l’evoluzione di Eta e Ira e si disponga a un compromesso politico, è un’illusione: Hezbollah non è una forza irredentista, non è interessato ad accordi territoriali (la questione di Sheba è solo strumentale), ma a fondare uno stato teocratico anche in Libano e a distruggere Israele. Può siglare mille tregue, nessuna pace duratura. Un innegabile successo politico sulla scena internazionale si misura dunque con una totale carenza di strategia sulla scena libanese, al di là della navigazione a vista. Un po’ poco.