Dal Corsera di oggi, l’editoriale di Panebianco:
Si può discutere se abbia ragione Amartya Sen quando, nel suo eccellente intervento pubblicato ieri dal Corriere, attribuisce alle degenerazioni delle politiche multiculturali la formazione di una subcultura islamica alienata e ostile in Gran Bretagna, oppure se è il multiculturalismo in quanto tale la causa prima di quella alienazione. Come mostra lo scalpore provocato dalla pubblicazione dell’inserzione dell’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii), equiparante Israele e nazismo, la questione non riguarda solo la Gran Bretagna ma anche noi. Nel nostro caso siamo di fronte a un problema che può essere così sintetizzato: non abbiamo nulla da obiettare al fatto che il controllo della maggior parte delle moschee e di altri luoghi di aggregazione islamica, nonché la rappresentanza dell’islam italiano, siano assunti, in tutto o in parte, da un islamismo radicale la cui predicazione si ispira ai Fratelli musulmani? Ci conviene seguire le orme della Gran Bretagna e creare così le condizioni per la formazione di una subcultura islamica alienata e ostile anche in Italia? La questione non riguarda solo l’imbarazzante presenza dell’Ucoii nella Consulta islamica (su cui rinvio a quanto ha scritto Magdi Allam su questo giornale). Riguarda soprattutto l’esistenza o meno della volontà di combattere una battaglia politica e culturale (ma anche giuridica, mettendo in campo leggi adeguate) contro l’islamismo radicale. Per impedire che l’islam italiano, man mano che passa il tempo, ne risulti sempre più impregnato, finendo poi per scegliere definitivamente, nei termini di Sen, la «separazione» anziché l’integrazione. Il modo in cui decideremo oggi di atteggiarci verso l’islamismo radicale nostrano indirizzerà in una direzione o nell’altra il nostro futuro, e anche quello dei musulmani che vivono in Italia. Non ci si può nascondere, tuttavia, la connessione stretta che esiste, in questo campo, fra «politica interna» (la politica verso l’islam italiano) e «politica estera» (le grandi scelte di campo nella lotta contro la sfida jihadista, non solo quella sunnita di Al Qaeda ma anche quella sciita di Iran e Hezbollah). In Italia, e non solo in Italia, è attivo e assai forte un «partito della resa», o dell’appeasement, che manda continui segnali, e che è disposto a venire a patti persino con i mandanti dei kamikaze, figurarsi poi con quelli che fanno il tifo a bordo-campo e che chiamano «martiri» quei kamikaze. È, quello della resa, un partito eterogeneo. Lo compongono sia coloro che, per ragioni ideologiche (ostilità agli Stati Uniti e ad Israele), non riconoscono come «nemico» l’islamismo radicale, sia coloro che, per quieto vivere o per una valutazione miope dei nostri interessi nazionali, pensano che con quel nemico dobbiamo stipulare un compromesso, sia, infine, coloro che, in omaggio al multiculturalismo, sono disposti a tollerare qualunque aberrazione, purché generata da una cultura «altra». C’è una differenza sostanziale fra i tempi di Monaco (1938) e quelli di oggi: allora, la sciagurata politica di appeasement riguardò solo rapporti fra Stati, fra le democrazie e la Germania hitleriana. Oggi riguarda anche i rapporti fra le democrazie occidentali e certi gruppi che vivono sul loro territorio. Come la Gran Bretagna ha già sperimentato a proprie spese, anche il multiculturalismo è, in buona sostanza, «politica estera con altri mezzi». Sarebbe bene non ripercorrerne le orme.