Un’analisi, ad opera di Magdi Allam
Il nodo che ha portato alla sostanziale paralisi della riunione dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea di ieri e della Conferenza di Roma sul Libano del 26 luglio scorso si può così riassumere: si vuole il cessate il fuoco immediato a tutti i costi o una tregua che rimuova le cause che hanno scatenato la guerra e spiani la via alla pace? Sono ancora molti tra i protagonisti della scena internazionale che faticano o non vogliono comprendere che non c’è affatto un automatismo tra la tregua e la pace. Perché non si tratta di un tradizionale conflitto per ragioni territoriali, economiche o egemoniche, bensì di una guerra ideologica mossa dalla determinazione a eliminare lo Stato di Israele di cui si disconosce il diritto all’esistenza.
Ed è in questo contesto che il livello della reazione militare israeliana è da considerarsi proporzionato alla natura della sfida che si traduce nella drastica alternativa della vita o della morte. Israele non ha altra scelta che prevenire la catastrofe perché è l’unico Stato al mondo che non avrebbe il diritto di replica qualora venisse distrutto e la sua gente sterminata. Eppure questo dato di fatto fondamentale sembra del tutto ignorato o nella migliore delle ipotesi sottovalutato da parte di coloro che si affannano a lanciare appelli per un immediato e incondizionato cessate il fuoco. Passa per un dettaglio che può preoccupare, ma non più di tanto, il fatto che la zona a ridosso della frontiera settentrionale di Israele sia stata trasformata nel fronte di prima linea della guerra santa del regime nazi- islamico iraniano contro Israele, manovrando e armando i burattini dell’Hezbollah, con la complicità del regime tirannico siriano sponsor dei terroristi di Hamas. Così come si ignora pressoché totalmente che gli oltre 1300 razzi e missili di produzione iraniana e siriana lanciati contro le città israeliane hanno distrutto o danneggiato centinaia di case, costretto 330 mila israeliani ad abbandonare le proprie abitazioni.
Coloro che a distanza giudicano la proporzionalità o meno della reazione israeliana basandosi sulla asettica contabilità delle vittime e dei danni, di fatto addossano a Israele due colpe. La prima «colpa» di Israele è di non aver subito un numero ragguardevole di vittime tale da poter competere con quelle libanesi, grazie all’efficienza dei suoi rifugi antiaerei e del sistema di protezione civile. La seconda «colpa» di Israele è di essere caduto nella trappola tesa dall’Hezbollah, costringendolo a colpire dei bersagli civili usati cinicamente come sedi logistiche, depositi di armi e rampe di lancio dei razzi. C’è tanto cinismo e tanta ipocrisia nell’atteggiamento della comunità internazionale. Che sin dal settembre 2004 con la risoluzione 1559 ha chiesto il disarmo dell’Hezbollah, non per fare un piacere a Israele ma perché necessario alla sovranità e libertà dei libanesi, e oggi si mostra disponibile a nobilitarlo come legittima controparte nel conflitto con Israele.
Dal momento che il mondo è impotente a disarmare l’Hezbollah, si ritiene che Israele dovrebbe conviverci anche se si tratta del suo aspirante carnefice. La verità è che tutti sanno che solo Israele può e deve disarmare l’Hezbollah, ma tutti attendono che faccia da solo il «lavoro sporco». La verità è che fino a quando Israele non avrà disarmato l’Hezbollah, nessuna forza multinazionale potrà essere dispiegata. Ecco perché tutti noi dovremmo essere onestamente e decisamente al fianco di Israele. Perché Israele ha il diritto di esistere. Perché solo la sconfitta del terrorismo dell’Hezbollah e di Hamas permetterà ai libanesi di vivere in pace e ai palestinesi di avere il loro Stato indipendente. Perché se la sicurezza di Israele dovesse essere messa seriamente a repentaglio e se gli israeliani si dovessero sentire abbandonati e criminalizzati, a quel punto sarebbe veramente la fine della vita e della speranza per il Medio Oriente. Oggi più che mai sostenere Israele significa prevenire la catastrofe generale e schierarsi dalla parte della pace per tutti.