di Mannheimer, sul Corsera di ieri
In che modo si debbono (o non si debbono) utilizzare i dati sulla pubblica opinione? Gli esperti di solito sanno leggere correttamente i risultati dei sondaggi. Ma, spesso, non è così per tutti i lettori e i commentatori. È perciò che talvolta – ma specialmente in questa occasione – sono indeciso se pubblicare gli esiti delle ricerche. Cerco di spiegare il perché, partendo dall’ ultima indagine. La maggioranza relativa della popolazione – poco meno del 40%, con una prevedibile accentuazione tra chi vota centrosinistra – ritiene che, in occasione del conflitto in corso col Libano, Israele «abbia esagerato». Al tempo stesso, c’ è una quota significativa – il 20%, con una forte accentuazione tra chi vota centrodestra e tra chi possiede titoli di studio più elevati – che, viceversa, è del parere che Israele non avesse altra scelta. Ad essa si contrappone, tuttavia, una percentuale non piccola (più del 10%) di cittadini di tutt’ altro avviso: secondo loro «i palestinesi debbono riconquistare con qualsiasi mezzo l’ intera Palestina». Il mio timore è che questa distribuzione delle opinioni espresse nel sondaggio venga subito utilizzata acriticamente, come «prova» di un supposto supporto popolare per quanti, tra i leader politici, hanno espresso l’ una o l’ altra opinione. È accaduto giorni fa, riguardo alla presenza dei militari italiani in Iraq e in Afghanistan, per la quale l’ opinione pubblica è contraria, in misura molto maggiore: il dato è stato riportato da molti senza rilevare che esso – come avevo scritto – è frutto più di non conoscenza della situazione che di radicata convinzione pacifista. Molte posizioni dell’ opinione pubblica non sono legate ad un’ analisi, della situazione reale e/o da una valutazione di tutte le sue componenti: inevitabilmente, dipendono da impressioni frettolose, basate su conoscenze superficiali, se non errate, o da indicazioni di «persone di cui si ha fiducia». Si tratta, specie per le questioni di politica estera, di giudizi spesso prodotti da un’ estesa disinformazione. Già tempo fa si era sottolineata la totale non conoscenza storica delle vicende che hanno portato al conflitto arabo-israeliano. Sia nella popolazione, sia, purtroppo, tra molti leader politici. Anche i risultati di questo sondaggio lo provano: al quesito sul perché gli Hezbollah attaccano Israele, la maggioranza assoluta ha risposto che dipende dal fatto che «Israele ha occupato i suoi territori». Sempre la maggioranza – e diversi politici – è convinta che «la Palestina è una nazione che già esisteva nel 1948, quando gli israeliani ne invasero una parte». E, naturalmente, più dell’ 80% è convinto che Hezbollah e palestinesi siano sinonimi per indicare la stessa cosa. Tutte queste amenità trovano una diffusione pressoché simile nei vari settori di elettorato, a destra come a sinistra. Spesso le opinioni espresse discendono dunque da suggestioni superficiali, slegate da una vera informazione. Proprio questo dovrebbe suggerire di non utilizzare, ad esempio, i giudizi espressi su Israele come avallo consapevole dell’ opinione pubblica all’ una o all’ altra posizione. E dovrebbe, specialmente, suscitare indignazione l’ esistenza e la diffusione (voluta?) di una tale disinformazione. E servire da sprone per aiutare i cittadini a formarsi un’ opinione basata sulla conoscenza. Fishkin ha mostrato come sottoponendo ai cittadini una serie di informazioni obiettive, questi tendano a mutare e a raffinare le proprie valutazioni. Forse, i media potrebbero informare di più e meglio. Fornendo a chi legge o ascolta una sorta di «riassunto delle puntante precedenti», la cui conoscenza manca ai più. Ciò porterebbe inevitabilmente a comprendere che, sulla base di elementi storici obiettivi, Israele (come molti – anche la sinistra israeliana e buona parte di quella internazionale – hanno sottolineato) non aveva, in questa occasione, altra scelta. Per la sua stessa sopravvivenza.