Il vertice romano si è appena concluso. In attesa di studiare con calma i risultati riporto qui di seguito un articolo di Venturini, pubblicato sul Corriere di ieri.
Riguarda gli obiettivi, palesi e non, che il giornalista ritiene fossero alla base del vertice stesso.
Nell’ indicare gli obbiettivi della conferenza sul Medio Oriente che si terrà domani a Roma, Massimo D’ Alema è stato saggiamente cauto: alleviare la crisi umanitaria, verificare le condizioni per una tregua d’ armi, impostare l’ invio di una forza multinazionale di pace. Non che si tratti di poca cosa, ma la diplomazia italiana fa il suo mestiere: incassa il prestigioso riconoscimento che la riunione le conferisce e nel contempo si copre le spalle ponendo l’ asticella del successo a un’ altezza che difficilmente non sarà raggiunta. Esiste, però, un’ altra agenda del vertice. Più coraggiosa e più rischiosa, e perciò meno pubblica. Con all’ ordine del giorno due questioni complesse che si chiamano Siria e Israele. Quella che potremmo definire «Operazione Damasco» nasce da un cambiamento, peraltro ancora da verificare, nella strategia americana. Mentre si adopera per concedere tempo alle offensive di Gerusalemme, Washington è arrivata alla conclusione che Hezbollah non potrà essere eliminato dalla sola forza militare israeliana. E’ Damasco a fornire appoggio logistico agli uomini di Nasrallah, è Damasco a poter interrompere le loro vie di rifornimento, è Damasco a voler essere in qualche modo coinvolta (senza un ritorno di truppe, beninteso) nella stabilizzazione del Libano. Si deve tentare, allora, di «agganciare» la Siria malgrado la rottura dei suoi rapporti diplomatici con gli Usa, di estendere al Sud Libano i divergenti interessi di Damasco e di Teheran in Iraq, di ottenere insomma la collaborazione della Siria e l’ isolamento dell’ Iran cavalcando le rivalità tra sunniti e sciiti. Se una tale manovra riuscisse, Hezbollah riceverebbe un colpo assai più duro di quelli inferti dalle cannonate israeliane. Ma per arrivare a tanto serve che Israele non allarghi il conflitto al territorio siriano, che l’ opposizione dei neocon Usa venga tenuta a bada, e che qualcuno parli con Damasco: forse i governi arabi moderati invitati alla conferenza (peraltro messi in grande difficoltà interna dalla catastrofe umanitaria in corso), più probabilmente quei governi europei che non tanto tempo fa fecero presente alla Casa Bianca che l’ auspicata caduta di Bashar el-Assad avrebbe consegnato la Siria ai fondamentalisti. Poi c’ è Israele. Il tremendo primato ebraico nella sofferenza rende difficile parlarne, come ha magistralmente spiegato Claudio Magris su queste colonne, e nessuno intende mettere in forse il diritto di Israele a difendersi. Ma qualche parola sul gran numero di vittime civili libanesi che si aggiungono a quelle israeliane, e qualche parola sul poco comprensibile accanimento degli aerei israeliani contro le infrastrutture civili del Libano, i convenuti di Roma dovranno dirla. Non soltanto per ragioni umanitarie: l’ attuale strategia di Ehud Olmert – è l’ insospettabile Wall Street Journal a spiegarlo meglio di altri – rischia di alimentare ulteriormente l’ appoggio popolare a Hezbollah, di frantumare il Libano, di propagare all’ intera regione un incendio che certo non gioverebbe alla sicurezza di Israele. Il contrario esatto di quel che si vorrebbe ottenere con i segnali di fumo inviati alla Siria. La posta immediata, domani, sarà rappresentata dai tempi di un cessate il fuoco con Condoleezza Rice nei panni di prim’ attrice. Ma servirà molto di più, e da tutte le parti in causa, per vantare davvero un successo. Non immediato, poco visibile, e per questo ancor più meritorio per chi sarà riuscito a saltare la vera asticella.