Un articolo di Cisnetto, pubblicato su Il Foglio
Quando è la concertazione a mancare
Continua ad esserci un convitato di pietra al tavolo della concertazione: la politica industriale. Si dice che la questione delle questioni sia lo sviluppo, ma finora si è parlato solo di finanza pubblica, mentre di grandi scelte per dare un progetto di crescita al Paese non c’è neppure l’ombra. Al massimo il rifinanziamento di Anas e Ferrovie, cose che dovrebbero essere scontate. Eppure la ridefinizione degli spazi e degli equilibri nel capitalismo mondiale, e di quello europeo in particolare, è un processo già in corso da tempo, e rischia di ultimarsi senza che l’Italia si sia neppure accorta di nulla. Mentre noi stiamo ancora a discutere di quali politiche fattoriali possiamo mettere in campo per aiutare il nostro vetusto sistema di pmi e dibattiamo sul rapporto tra mercato e Stato – nodo sciolto in Occidente da molto tempo con un pragmatico dosaggio di entrambi – altrove ci si occupa di fusioni (ultima, Arcelor-Mittal), di grandi delocalizzazioni di produzioni mature (Germania), di mega accordi (Nokia e Siemens danno vita al terzo player mondiale nelle tlc). Eppure anche in Italia ci sarebbe la possibilità di costruire alcuni grandi gruppi, senza i quali non si può attivare la inderogabile trasformazione del nostro apparato produttivo e terziario.
Alcuni casi sono a portata di mano. Il primo è senz’altro quello relativo ad Autostrade. Qualche settimana fa ho scritto in questa rubrica che l’unico atteggiamento che il governo non avrebbe dovuto assumere era quello di tergiversare, abbaiando senza mordere. O diceva subito no alla fusione con gli spagnoli, assumendosene la piena responsabilità politica (altro che parere del Consiglio di Stato), oppure bisognava aprire una trattativa con i Benetton (e gli altri soci di Schemaventotto), con Abertis e con il governo Zapatero per massimizzare i benefici ricavabili dal sistema-paese in cambio del via libera all’operazione. Invece si è perso tempo, e la cosa è andata avanti (oggi ci sarà l’assemblea di Autostrade), come è normale che sia trattandosi di società private, accompagnata dal rumore di fondo del mugugno del ministro Di Pietro e di qualche esponente del governo, rischiando di far scappare a gambe levate gli spagnoli. Ora, per come si sono messe le cose, dire di no è troppo tardi. L’unica via logica è quella dell’assenso, da parte del governo, ma sarebbe masochista arrivarci senza contropartite, specie sul fronte spagnolo. Dunque Prodi prenda in mano il dossier, telefoni a Zapatero e chiuda al più presto la partita. Così come, altrettanto rapidamente, deve decidere il futuro di Finmeccanica nell’ambito delle varie opzioni di alleanze internazionali – inducendola per altri versi a favorire nuove aggregazioni sul fronte delle tecnologie civili (penso, per esempio, a Elsag-Finsiel) – e di Alitalia (sono mesi che vanno chiuse le partite dell’outsourcing e poi bisogna aprire una trattativa con Air France). Ma non sono da meno altre priorità: Enel in Francia, Eni sul fronte del gas, l’ipotesi della “rete delle reti” (Terna, SnamRetegas, Rai). E per le banche, c’è forse una qualche strategia o dobbiamo attendere la definitiva colonizzazione del settore più strategico di tutti? Bankitalia ha scelto la strada del lassez fair – comprensibile dopo quanto è successo, ma troppo deresponsabilizzante – pur sapendo che si sta giocando una partita di tutti contro tutti, tra e dentro gli istituti, che coinvolge manager, azionisti e residui di poteri forti, che non potrà certo produrre un sistema più avanzato. E gli strumenti pubblici, come Poste e Cassa depositi e prestiti, che fanno, stanno a guardare? Possibile che nessuni pensi a favorire la nascita di fondi di private equity nazionali con obiettivi di tipo sistemico? Non potrebbero diventarlo le fondazioni bancarie, togliendo loro non le partecipazioni bancarie – come per fortuna si è smesso di pretendere – bensì l’inutile orpello della beneficenza? E della partita Mediobanca-Generali c’è qualcuno che se ne sta occupando, dalle parti di palazzo Chigi? Infine, non varrebbe la pena di convocare quei pochi grandi capitalisti privati, insieme al top management delle imprese pubbliche, che hanno molte risorse e stanno ottenendo successi per una sorta di “patto per lo sviluppo”? Io credo che da Caltagirone agli stessi Benetton (si pensi alla straordinaria case history di Autogrill, la più grande “multinazionale italiana” dopo l’Eni), dal gruppo De Agostini (fantastico il doppio colpo dell’acquisto di Gtech con Lottomatica e della vendita della Toro) ai Rocca della Tenaris, ne sarebbero tutti ben felici. Cosa si aspetta?