di P. Ostellino
I l mestiere di Cassandra è un gran brutto mestiere, ma – come direbbe Giulio Andreotti – spesso ci si azzecca. Non ricordo più neppure quanto tempo fa avevo scritto in un mio «Dubbio» che le possibilità di riformare il nostro pessimo sistema giudiziario sarebbero definitivamente tramontate e la corporazione dei magistrati l’avrebbe avuta definitivamente vinta il giorno in cui fosse andata al potere la sinistra (allora giustizialista). Ora, apprendo con raccapriccio dalle stesse pagine del Corriere che Romano Prodi, il futuro presidente del Consiglio, sta consultando le varie correnti della magistratura in vista della nomina del nuovo ministro della Giustizia. Qui, non siamo neppure nella logica del classico concetto di «concertazione» (sindacati, imprenditori, governo), che pur tanti danni ha prodotto al bilancio dello Stato, al mercato e al nostro capitalismo, in nome di una supposta «stabilità sociale». Qui siamo a uno stadio che, in nome di un’apparente operazione di potere, sta riducendo, di fatto, il prossimo Parlamento a una Camera delle corporazioni e il ministero della Giustizia a un’appendice della magistratura. Siamo allo stravolgimento della nostra Costituzione, del principio della separazione dei poteri di ogni democrazia liberale, al grottesco tentativo, complice il capo del Governo, di occupazione e manomissione dello Stato da parte dell’ordine giudiziario, che una maggioranza parlamentare unicamente preoccupata della divisione delle spoglie e aggrappata al potere appena raggiunto, un’opposizione in stato confusionale, un sistema informativo incapace di autonomo discernimento, sembrano non vedere. Personalmente mi rammarico, poi, che oggetto di queste anomale consultazioni fra potere politico e ordine giudiziario, che meglio sarebbe definire un mercato delle vacche in cui la parte delle vacche la fanno i candidati ministri della Giustizia, sia diventato anche il nome di un giurista onesto e capace come Giuliano Pisapia di Rifondazione comunista. Che, per parte sua, invece di compiacersi di avere strappato per il proprio leader la presidenza della Camera dovrebbe piuttosto chiedersi «che cosa» sarà la Camera che egli presiederà e «quale autonomia» avrà il governo cui partecipa.
Mi addolora sinceramente dover scrivere queste cose su Romano Prodi, che stimo, di cui sono amico da tanti anni e che è indubitabilmente un sincero democratico. Ma a me pare che, nel disperato tentativo di formare un governo col bilancino del farmacista che accontenti non solo tutti i partiti della sua coalizione, ma anche i gruppi di interesse e di pressione esterni al Parlamento, e regga alla prova con una maggioranza tanto risicata al Senato, egli si stia mettendo su una cattiva strada. Una strada che rischia di portarlo fuori dalle regole di una democrazia parlamentare qual è la nostra e di compromettere l’immagine di una coalizione che ha vinto legittimamente le elezioni e merita perciò di governare il Paese senza sollevare ombre sul proprio operato. Tanto più mi addolora in quanto il mio non è un giudizio politico – per me, che non voto, era del tutto indifferente che vincesse il centrodestra o il centrosinistra e ho sempre escluso che, chiunque avesse vinto le elezioni, potesse rappresentare un pericolo per la nostra democrazia – ma è un giudizio in punto di costituzionalismo liberale. No, caro Romano, se questo è l’inizio, mi spiace, ma non ti riconosco più.