da Il Foglio di ieri
Milano. Franco Pagetti ha 56 anni e il fisico asciutto di un ragazzino. Da tre anni vive gran parte del suo tempo in Iraq, al fronte. E’ il fotografo del settimanale americano Time, l’autore di formidabili scoop come, per esempio, quello con cui un mese fa ha mostrato sui giornali di tutto il mondo il volto della bambina sopravvissuta alla strage americana di Haditha. Pagetti probabilmente è l’italiano che più di ogni altro conosce la vera situazione irachena. Non è un tipo da starsene in albergo a bere tè alla menta, protetto dal filo spinato della Green Zone. Va spesso in prima linea, a volte dalla parte americana, altre tra i baathisti o i jihadisti. Pagetti ha partecipato alla battaglia di Fallujah del novembre 2004, era al seguito delle forze speciali a Tal Afar, è stato lui a passare a Giuliana Sgrena i contatti per intervistare i profughi di Fallujah ma, al contrario della giornalista del Manifesto, c’è andato scortato e ha capito quando era giunto il momento di allontanarsi. Su ciascuna di queste vicende, Pagetti ne racconta a raffica e si inalbera particolarmente quando sente i colleghi italiani criticare i giornalisti e i fotografi “embedded” nell’esercito americano. “Censure? Non mi hanno mai controllato una foto né mai messo una mano davanti all’obiettivo, magari avessi avuto la stessa libertà quando ero in Kosovo con gli italiani…”. Pagetti è stato un fotografo di moda, ma cinque o sei anni fa ha abbandonato modelle e soldi facili per fotografare la guerra in Africa, in Asia, in medio oriente, in Arabia Saudita prima per il New Yorker e per Newsweek, ora in esclusiva per Time.
Pagetti è comunista, lo rivendica con orgoglio e lo ripete spesso agli ufficiali e soldati americani che per sfotterlo lo chiamano “fucking communist” (ma sono gli stessi che quando un cecchino gli ha sparato contro sono corsi a proteggerlo con i loro corpi). Pagetti era contrarissimo alla guerra in Iraq, anche se favorevole a destituire Saddam. Tre anni dopo ha una diversa opinione sul conflitto, sull’Iraq e sugli americani. La sua controstoria è di quelle che non ti aspetteresti di sentire da un “fottuto comunista”. “Se mi chiedi la soluzione, ti dico che ci vogliono i B-52”, dice al Foglio con una naturalezza che neanche Dick Cheney. “Le guerre non si combattono con i guanti, con i fiorellini, costringendo i marines a fare i vigili urbani”. La guerra o si fa o non si fa, aggiunge Pagetti.
La tesi del fotografo italiano di Time è questa: gli americani sono troppo democratici, hanno una fede sconfinata nella democrazia e una eccessiva fiducia nell’interlocutore che si trovano di fronte. Fa parte della loro natura. La democrazia è alla base della loro stessa esistenza. Credono che la gente possa riscattarsi, cambiare idea, redimersi se solo gli venisse concessa la possibilità e la libertà di farlo. Ma, secondo Franco Pagetti, con gli iracheni non può funzionare, almeno nel breve periodo. Le elezioni, aggiunge, hanno dimostrato che sunniti e sciiti non hanno la coscienza politica di considerare il voto come uno strumento per cambiare, migliorare o indirizzare le sorti del loro paese. Sono andati a votare perché era una novità, perché era un giorno di festa. Solo chi ha una fede così assoluta nella democrazia poteva pensare che un anno dopo la caduta del regime si potesse riuscire a instaurare una democrazia normale.
“Il fallimento in Iraq è il fallimento di un certo establishment di Washington – dice Pagetti – ma allo stesso tempo è un grandioso monumento alla democrazia”. Il paradosso è spiegato con una frase di moda in Iraq: i politici hanno come tutti due occhi, ma con il primo guardano la realtà e con il secondo la Cnn. Da quando è cominciata la guerra, l’occhio di Washington guarda più la tv che la situazione sul campo, sicché ai generali non viene consentito di fare ciò che devono fare per vincere. “Andare via non si può, quindi la strada per vincere è una soltanto – argomenta Pagetti – piano Marshall e legge marziale”. Gli americani hanno fatto il contrario. Con l’occhio rivolto verso l’opinione pubblica hanno scelto di non forzare la mano, e ora si trovano nei guai. “Falluja? Falluja andrebbe rasa al suolo. Come Ramadi, come le altre roccaforti. Mi fanno ridere quelli che criticano i marines per aver attaccato Falluja: lì c’era il terrore, le esecuzioni per strada… Contro questi che fai? Mandi un ambasciatore a parlare di pace?”.
Christian Rocca