di G. Riotta, dal Corsera di oggi
Nessuno tratta con Hamas, tutti trattano intorno ad Hamas. Nel giorno in cui l’Unione Europea taglia i fondi al governo palestinese, retto dalla formazione fondamentalista islamica, il no alla trattativa con Hamas guadagna le prime pagine, come se Usa ed Europa davvero isolassero il primo ministro Ismail Hanyah. Attenti alla cipria delle cancellerie: mai come oggi, al confine tra Israele e Palestina la faccia feroce della diplomazia nasconde un andirivieni caotico di iniziative dove, a parole, nessuno tratta con Hamas e, nei fatti, tutti trattano disperatamente con Hamas.
Comincia lo stesso ministro degli esteri di Hamas, Mahmoud Zahar, con la lettera al segretario Onu Kofi Annan, lasciando intendere che Hamas non sarebbe aliena dall’accettare, obtorto collo , l’esistenza di Israele, malgrado il giuramento di odio eterno sancito nella sua carta fondativa. Subito dopo, come un vero politico di casa nostra, Zahar fa sapere di essere stato frainteso, una mezza smentita ma intanto il segnale è partito. Il Vaticano permette che il padre francescano Pierbattista Pizzaballa discuta con Hamas. E il periodico Usa Weekly Standard , Bibbia dei neoconservatori, s’interroga se la politica del dire solo no ad Hamas sia raziocinante e sostenibile. Del resto, una larga parte della popolazione israeliana è persuasa che, di nuovo obtorto collo , occorra trattare con i duri di Hamas. Ed Efraim Halevy, mitico ex direttore veterano di 33 anni al Mossad, lo spionaggio di Israele, conclude la sua recente – e straordinaria – autobiografia con l’ammissione che sia inevitabile trattare con Hamas, per fronteggiare il nemico peggiore, al Qaeda: «Alla fine dovremo andare a cena con il diavolo, sempre vigilando perché non ci avveleni il calice».
Halevy dice quel che tutti pensano, ma non dichiarano per non bruciare le carte: la dissennata campagna elettorale di Fatah, che ha portato al governo la risicata maggioranza di Hamas, impone un negoziato discreto. Dove il doveroso riconoscimento di Israele non sarà il punto di partenza ma quello di arrivo, sofferto, faticoso. La doppiezza di Hamas, colpevole di atroci attentati in Israele, verrà dal governare sotto gli occhi del mondo, costretta alla prudenza. Abbas al Sayyid, leader di Hamas, regista della strage di Pasqua 2002, 30 morti e 140 feriti, confida dal carcere allo studioso americano Matthew Levitt: «Non siamo solo terroristi. Potremmo anche accettare una tahya , una tregua temporanea con Israele. Magari lunga due, o tre generazioni».
Ecco la posta in gioco della trattativa silenziosa, non trasformare in una stagione Hamas in Amnesty International, ma assicurare che la tregua temporanea, la tahya , duri. Gli Usa rinviano il pagamento della loro rata all’Autorità palestinese, girandola magari a organizzazioni umanitarie, ma si tratta di una frazione minima del bilancio, che non smuoverà Hamas. Pesa invece il mezzo miliardo di euro che gli europei versano ai palestinesi. Il premier Haniya lamenta «vogliono punire la nostra scelta democratica». Sa che non è così: è grazie alla democrazia che la corruzione di Fatah è stata castigata ed Hamas è al potere.
La scelta della trattativa fantasma è nitida. Hamas deve mantenere la tahya , tregua in armi, se non vuole che la mancanza di fondi inaridisca la sua vera forza, il sistema di assistenza sociale, dawa , che accudisce migliaia di diseredati. Stati Uniti ed Europa, ricorda Rashid Khalid della Columbia University, devono invece decidere «se il terrorismo è una macchia umana indelebile o un comportamento, inaccettabile e crudele, che può però essere mutato».
Che Hamas si sia macchiata di stragi atroci è verità storica. La trattativa fantasma vuol determinare se il passato di sangue può evolvere in un cessate il fuoco, foriero di progressi oggi imprevedibili.