da "Il Foglio" di ieri
Washington. Una possibilità, una soltanto e poi contro il regime iraniano scatteranno le sanzioni. Ieri John Bolton, tosto ambasciatore americano alle Nazioni Unite, ha alzato di qualche tono la voce e ha detto che, se i mullah non rinunceranno alle operazioni di arricchimento dell’uranio entro la fine del mese – come richiesto dalla “dichiarazione presidenziale” del Consiglio di sicurezza dell’Onu – poi ci sarà un monito un po’ più duro e, se ancora le risposte saranno le consuete pernacchie di Teheran, arriveranno le sanzioni: “Una risoluzione secondo il capitolo 7 (il capitolo della carta dell’Onu che considera le misure da adottare in caso di minaccia alla pace, ndr) che impone sanzioni di un qualche tipo”, ha detto Bolton.
I sobbalzi della politica americana nei confronti dell’Iran sono, secondo il giovane direttore di New Republic, magazine liberal americano, le modulazioni di un “rilassamento tattico”. L’Amministrazione statunitense non vuole fare promesse che poi non può mantenere: non si tratta di “rassegnazione” occidentale nei confronti della minaccia iraniana, ma di mancanza di “forze militari” e di “sostegno psicologico”. “Washington non sta indietreggiando di fronte a un confronto diretto con l’Iran – dice al Foglio – Ma non può creare l’attesa da parte degli americani di vedere risultati immediati”. L’attacco militare, per Peretz, non è fattibile, non ci sono i mezzi per sostenere un blitz vincente, soprattutto con il fronte iracheno ancora così aperto. Fino a quando non ci saranno segnali positivi da Baghdad, l’Amministrazione – con le elezioni di “mid term” a novembre – non è nelle condizioni morali e militari per cimentarsi in un’altra impresa bellica: “Washington conosce i suoi limiti”.
La questione irachena è complicata. Stando alle fonti diplomatiche, domani si dovrebbe tenere l’incontro a Baghdad tra esponenti americani e iraniani. Sul tavolo c’è la formazione del governo iracheno, ma, secondo voci di Teheran, si parlerà anche d’altro. Delle ambizioni di potenza regionale dei mullah, per esempio. In occasione della chiusura della settimana di giochi missilistici nel Golfo Persico – dal nome “Operazione Profeta” – il comandante dei pasdaran, Rahim Safavi, ha ribadito che “la Repubblica islamica ha dimostrato il suo potere militare e chiede di essere riconosciuto come potenza regionale”. Molti commentatori internazionali – come Leon de Winter ha spiegato nella sua intervista al Foglio – pensano che un accordo tra Washington e Teheran non ci sarà mai. Mondi inconciliabili. Eppure alcuni realisti sostengono che un patto sulla pacificazione irachena è così importante da consigliare perfino una maggiore tolleranza nei confronti delle ambizioni nucleari dei mullah. Secondo Peretz, l’Amministrazione americana ha una sua strategia per contemperare la soluzione della questione irachena e il pericolo che un jihad nucleare iraniano – come l’ha definito su queste pagine l’intellettuale francese André Glucksmann – comporta: “Se i rapporti diplomatici con l’Iran cominceranno a deteriorarsi, sarà Israele a mettere fine ai sogni di distruzione di Mahmoud Ahmadinejad”, il presidente della Repubblica islamica.
Israele, Clinton e un favore agli arabi
Secondo Peretz, se il governo di Gerusalemme dovesse avvertire il pericolo imminente, porterà a termine un attacco aereo, colpendo i siti iraniani a rischio nucleare. Basterà rendere operativi gli aerei militari F15 A regalati dall’ex presidente Bill Clinton: nessuna sosta e un solo pieno di combustibile. E’ addirittura possibile – dice Peretz – che Washington, davanti alla comunità internazionale, arrivi a “rimproverare Israele per avere agito con impulsività”. Intanto, però, il pericolo del jihad nucleare sarebbe rimandato di altri dieci anni o più.
Così facendo il governo di Gerusalemme farebbe addirittura anche un favore al mondo arabo: “I paesi musulmani non sono uniti tra di loro – spiega Peretz – Esiste una divisione tra sciiti e sunniti. Il re Abdallah di Giordania ha già mostrato di temere l’insorgere di un forte Iran”. I paesi arabi sono però ostaggio del loro paradosso. Hanno paura del “jihad nucleare sciita”, ma non vogliono mostrarsi contro l’Iran. Sperano “di essere salvati dagli ebrei” per non avere colpe e non essere accusati di collaborazionismo con l’occidente.
Per Peretz, Israele è quindi l’unico paese ad avere una strategia. L’Europa è troppo occupata a portare avanti “falsi negoziati” per rispettare il bon ton, Washington temporeggia. L’Amministrazione però potrebbe ancora stupire: “I giochi non sono ancora chiusi”.