Roma. C’è chi lo chiama “approccio graduale” e saluta trionfante la nuova stagione della diplomazia multilaterale dove dominano il dialogo, la coesione transatlantica e il ruolo delle istituzioni internazionali. Dopo tre anni di sterili negoziati quest’inedita comunione d’intenti ha infine permesso al Consiglio di sicurezza di mettere le mani sul dossier nucleare iraniano e di condannarlo. Ci sono volute tre settimane, ma il monito è stato partorito. Non una risoluzione e soprattutto non una risoluzione “chapter seven”, che potrebbe preparare il terreno a eventuali misure punitive, ma una “dichiarazione presidenziale” in cui si avverte Teheran che ha 30 giorni di tempo per congelare il suo programma nucleare e firmare il protocollo separato del Trattato di non proliferazione. In caso contrario, niente, o meglio, niente di drammatico, un altro monito dell’Agenzia atomica e altri incontri al vertice in cui brillerà il prudente direttore dell’agenzia Mohammed ElBaradei. Non abbastanza da far perdere i sonni alla mullahcrazia di Teheran. Proprio mentre a Berlino i cinque membri permanenti (più la Germania) festeggiavano il sofferto accordo sul testo, mentre il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, metteva in risalto l’unità della comunità internazionale e il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, sentenziava che l’Iran “deve fare una scelta tra l’isolamento prodotto dall’arricchimento dell’uranio e un ritorno al negoziato”, l’ambasciatore iraniano all’Aiea, Ali Ashgar Soltanieh, non perdeva tempo nel ribadire che “la sospensione è da escludere”. Questo morbido attendismo rafforza e incoraggia i peggiori propositi dei falchi. “Le loro sono provocazioni a costo zero. La comunità internazionale danza intorno ai problemi senza conseguenze – dice al Foglio il giornalista iraniano Amir Taheri – e così i falchi non hanno motivo di cambiare politica, anzi. Il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, può vantarsi di aver umiliato la civiltà occidentale al tramonto”. Taheri è pessimista, pensa che il sostanziale immobilismo della comunità internazionale farà precipitare la situazione perché i fondamentalisti vogliono lo scontro. “Persino il partito dei pragmatici, che ruotano attorno all’ex presidente Hashemi Rafsanjani e, per motivi di portafoglio, vuole un accomodamento con gli Stati Uniti, auspicava una risoluzione dura per mettere alle strette l’Amministrazione Ahmadinejad e invece ha perso ancora, e i falchi non si fermeranno”, dice. Nella regione, secondo Taheri, l’effetto dell’immobilismo internazionale sarà un’inevitabile corsa agli armamenti: “L’Arabia Saudita e il Pakistan si stanno già muovendo in questa direzione. Seguirà l’Egitto”, pronostica. L’autorità dell’Onu uscirà a pezzi dalla gestione del dossier iraniano e il Vecchio continente non avrà miglior fortuna. “L’Europa continuerà a non contare, perché non manda messaggi chiari. Da un lato dice di non volere un Iran con la bomba, dall’altro non fa niente per impedirlo. Gli europei non sono certo i giocatori principali. I fondamentalisti addirittura li prendono in giro, Ahmadinejad, li chiama spesso ‘nani’”. Taheri è critico anche nei confronti degli Stati Uniti. “Ci sono tante Americhe – dice – una ha aperto al dialogo a proposito dell’Iraq, l’altra ha fatto un passo indietro. Un condominio Washington-Teheran per la gestione dell’Iraq, oltre che esaltare le ambizioni dei falchi che già parlano di un Iran che si affaccia al Mediterraneo, sarebbe deleterio per le dinamiche regionali, inaccettabile per esempio per la Turchia. Ora Washington sembra aver cambiato idea, ma questi segnali hanno fatto pensare a Teheran di essere sulla strada giusta”. Russia e Cina, invece, hanno buoni motivi per non mettere i bastoni tra le ruote a Teheran: “Mentre gli scienziati iraniani lavorano a pieno regime, i protagonisti della politica internazionale scelgono di non scegliere e anche questa, purtroppo, è una scelta”.
da "Il Foglio" del 31 marzo 2006