di M. Molinari
da La Stampa del 14.02.2006
Mahmoud Ahmadinejad vuole strappare a Osama bin Laden la guida del confronto ideologico e militare con l’Occidente: è questa l’interpretazione che un crescente numero di analisti danno al rapido sovrapporsi delle prese di posizione del presidente iraniano su rilancio del programma nucleare, negazione dell’Olocausto, volontà di distruggere Israele e sostegno ai disordini di piazza anti-europei dopo la pubblicazione in Danimarca delle vignette su Maometto.
«Ahmadinejad ha due vantaggi decisivi rispetto ad Osama bin Laden – spiega Tom Donnelly, esperto di affari strategici dell’American Enterprise Institute di Washington – perché controlla uno Stato e sta per possedere l’arma nucleare». Lo Stato è ciò che manca a bin Laden dal rovesciamento dei taleban afghani nel 2001. Per rimediare le cellule di Al Qaeda si propongono di rovesciare la monarchia saudita ed il presidente pakistano ma i tentativi finora solo falliti, al pari di quello di Abu Musab al-Zarqawi di cacciare gli americani dall’Iraq. «Avere uno Stato significa poter contare su un territorio, dei fondi ed un esercito, la debolezza di Osama è la forza di Ahmadinejad», aggiunge Donnelly, secondo cui però «ciò che più conta è che l’Iran sta per mettere le mani sull’atomica che Al Qaeda insegue da tempo».
Avere l’arma nucleare significa poter minacciare l’Occidente di attacchi assai più terribili di quelli messi a segno dai kamikaze dell’11 settembre e ciò «fa di Ahmadinejad, agli occhi dei fondamentalisti, un nemico dell’Occidente più potente rispetto a bin Laden». Anche sull’ideologia Osama rischia di essere scavalcato: se fu lui nel 1998 a lanciare il manifesto della Jihad «contro ebrei e crociati», Ahmadinejad oggi va oltre e negando l’Olocausto di sei milioni di ebrei dimostra di voler riscrivere la storia. Dietro tale forcing ideologico c’è il fatto che «mentre bin Laden ha fatto appello al fondamentalismo sunnita, Ahmadinejad vuole spostare verso gli sciiti la guida della sfida all’Occidente», sottolinea l’iraniano Amir Taheri, direttore di «Politique International», molto popolare nei centri studi di Washington.
Sarebbe dunque in atto quella che Donnelly definisce una «gara per la leadership del terrore». «Se Ahmadinejad riesce a imporsi – dice Taheri – sono gli sciiti a prendere il sopravvento sui sunniti e ciò può avere un impatto immediato in Iraq dove Teheran teme di veder ridotta la propria influenza».
Gli assalti alle sedi diplomatiche europee a Damasco, Beirut e Teheran avrebbero per la prima volta dimostrato da parte delle cellule fondamentaliste legate all’Iran un’efficienza di cui Al Qaeda dispone sempre meno. Taheri fa un passo in più e spiega l’escalation di Ahmadinejad con una svolta interna alla Repubblica islamica: «Quanto dice l’attuale presidente non è diverso da ciò che hanno detto per anni tutti i leader iraniani da Khomeini in poi, la differenza sta nel fatto che mentre costoro credevano nella dottrina della “kitman”, la dissimulazione del pensiero, richiamandosi all’idea dell’ayatollah Montazeri secondo cui il mondo non è ancora pronto a sapere la verità, Ahmadinejad invece segue l’ayatollah Yazdi, che professa la necessità di parlare con chiarezza e dire ciò che è giusto, affinché il mondo intero sappia». Donnelly concorda: «Ahmadinejad era un soldato ai tempi della sanguinosa guerra Iran-Iraq, ha maturato la convinzione che la Repubblica islamica ha esaurito la sua prima fase e vuole guidarne la seconda, puntando sul radicalismo sciita».
Anche un veterano del Medio Oriente come Richard Murphy, ex ambasciatore Usa a Damasco ora in forza al Council on Foreign Relations di New York, usa come chiave di lettura la fede: «Ahmadinejad si differenza da bin Laden per non aver mai detto di parlare a nome di tutto l’Islam ma noi sappiamo che in termini di fede gli ayatollah si ritengono depositari della vera interpretazione dell’Islam, considerando tutti i leader arabi ignoranti o blasfemi. Non a caso lo stesso Osama non ha mai ricevuto attenzioni da Teheran».