Pensate che il 2 maggio 2005 l’imam Ahmed Abu Laban era l’ospite d’onore al convegno «Le radici del terrorismo in Europa» organizzato dal capo dei servizi segreti danesi, Lars Findsen, svoltosi nel suo quartier generale a Copenaghen. Elevato dalle autorità al rango di rappresentante dei musulmani in Danimarca, cinque mesi dopo Abu Laban si rivelerà il grande burattinaio che ha promosso la «guerra santa » dell’islam mondiale contro il Paese che gli ha dato la cittadinanza.
La figura centrale di Abu Laban, noto anche ai servizi segreti italiani per i suoi rapporti con la moschea di viale Jenner a Milano, sconfessa ancora una volta il luogo comune sulla natura reattiva dell’ondata di violenza e di terrorismo esplosa ben cinque mesi dopo la pubblicazione delle discusse vignette che ritraggono il profeta Mohammad (Maometto). Chiarendo che non c’è un rapporto di causa ed effetto tra la presunta blasfemia e il terrorismo. Bensì la fredda e deliberata strumentalizzazione di un risentimento diffuso tra i musulmani per pianificare, d’intesa con movimenti estremisti e governi canaglia islamici, l’aggressione a uno stato simbolo e a dei valori fondanti della civiltà occidentale. Premettiamo un fatto poco o per niente noto.
Non solo il quotidiano Jyllands-Posten, sotto accusa per la pubblicazione delle vignette lo scorso 30 settembre, ha ospitato le opinioni polemiche di esponenti islamici, ma questi ultimi hanno effettivamente intentato una causa al giornale per diffamazione e blasfemia, un reato contemplato dal codice danese. Ma evidentemente l’obiettivo non è una soluzione civile che concilii il diritto alla libertà d’espressione con il rispetto dei simboli della religione, o comunque affidata alla sentenza di un tribunale. «Noi vogliamo internazionalizzare la vicenda affinché il governo danese si renda conto che le vignette non hanno offeso solo i musulmani della Danimarca ma anche i musulmani di tutto il mondo», sostenne Abu Laban il 18 novembre al sito integralista www.islam-online.net.
Ed è così che dopo aver aizzato i militanti islamici in Danimarca, Abu Laban è partito al Cairo, dove è stato ricevuto dal segretario della Lega Araba Amr Moussa e dal grande imam dell’università islamica di Al Azhar Sayyed Tantawi. Poi si è recato in Arabia Saudita e infine nel Qatar, accolto a braccia aperte dallo sheikh Youssef Qaradawi, leader politico e spirituale dei Fratelli Musulmani d’Europa. Quest’ultimo, lo scorso 3 febbraio, ha emesso una fatwa che legittima l’uccisione dei vignettisti e dei direttori di giornali che avrebbero offeso il profeta Mohammad. Abu Laban, persona non grata in Egitto e negli Emirati Arabi per le sue tesi islamiche estremiste, è legato al movimento palestinese Hamas e al gruppo egiziano della Jamaa al-Islamiya.
Ha ospitato a Copenaghen nel 1990 lo sheikh cieco Omar Abdel Rahman, condannato all’ergastolo negli Usa per il primo attentato al World Trade Center del 1993, e Ayman al Zawahiri, il numero due di Al Qaeda. All’indomani dell’11 settembre ha elogiato Bin Laden e i Taliban. Intervistato proprio dal Jyllands- Posten il 21 agosto 1994 dopo la strage di sette monaci e altri turisti in Algeria, Abu Laban commentò: «Forse i turisti diffondevano l’Aids in Algeria così come gli ebrei diffondono l’Aids in Egitto». Nel febbraio 1995 è stato ospite a Milano del nono congresso della moschea di viale Jenner. Abu Laban e altri predicatori pronunciarono dei sermoni, registrati in un video, di cui Il Foglio ha pubblicato un estratto: «Bisogna combatterli, ucciderli, lapidarli: solo così si può aver pietà di loro.
Il Jihad con armi e fuoco ha come obiettivo di togliere il marcio da questa terra, perciò è questa la pietà: salvare il mondo dai miscredenti». Cosa significa tutto ciò? Che le scuse reiterate in tutte le salse all’ islam e ai musulmani non solo non servono, ma vengono percepite come un segno di debolezza e incoraggiano i burattinai del terrore a infierire ancor di più. Sono loro il problema, non le vignette. Un problema creato dall’ingenuità e dalla pavidità dell’Occidente.
Magdi Allam