L’Occidente deve restare unito di fronte al dilemma posto dal presidente populista Ahmanidedjad
Per gli Stati Uniti e l’Europa — e per le relazioni transatlantiche — l’Iran costituisce una sfida più delicata e di portata ben più vasta rispetto forse a qualsiasi altro Paese al mondo. Se il suo programma nucleare — con probabili fini militari— fosse portato a compimento, ciò porrebbe una minaccia diretta alla sicurezza dell’Occidente. È dunque evidente che Europa e Stati Uniti hanno tutto l’interesse a favorire un’evoluzione democratica del sistema politico iraniano. Certo, anche un eventuale governo democratico e liberale avrebbe interessi nazionali, risentimenti storici nei confronti degli Usa, ambizioni nucleari e divergenze con lo Stato di Israele: ma avrebbe anche molte più possibilità di risolvere tali problemi in modo pacifico, per non parlare dei risvolti benefici che una democratizzazione avrebbe per il popolo iraniano stesso.
Non è detto che un Iran democratico accantonerebbe i progetti di sviluppo delle armi nucleari; ma potrebbe più facilmente essere convinto a farlo attraverso incentivi economici; e, anche qualora non si fermasse, la minaccia, per l’Occidente, sarebbe in assoluto meno grave. Democratizzazione o denuclearizzazione? Il problema di come contribuire a portare la democrazia in Iran è ulteriormente complicato dalla questione nucleare. Ammesso, infatti, che l’Occidente abbia le idee chiare su come promuovere la democratizzazione, questo obiettivo deve fare i conti con la seconda priorità che abbiamo, quella appunto di convincere il regime iraniano ad abbandonare le sue ambizioni nucleari. Cosa fare, ad esempio, se per abbandonare il ciclo di produzione del combustibile nucleare — l’unico modo sicuro per escludere lo sviluppo di armi nucleari — Teheran chiedesse in cambio all’Occidente di ricevere una grande quantità di investimenti e di moltiplicare i rapporti commerciali? Accettare questa condizione significherebbe dare ossigeno a un regime altrimenti debole e impopolare. L’Occidente dovrebbe acconsentire a rinviare sine die i suoi obiettivi di democratizzazione, in cambio di una soluzione alla questione nucleare? In caso contrario, il rischio è che il programma nucleare avanzi più rapidamente della democratizzazione; in altri termini, quando i nostri sforzi per promuovere un Iran più liberale e democratico avranno avuto successo, come quasi certamente accadrà alla fine, potrebbe essere troppo tardi per impedire la proliferazione nucleare.
Su tutti questi punti americani ed europei hanno percezioni diverse. Gli americani dubitano che si possa veramente trovare un accordo che garantisca la fine del programma nucleare iraniano e sono molto riluttanti all’idea di incentivare Teheran con misure economiche. Gli europei sono scettici circa la possibilità di provocare un cambio di regime e sembrano più propensi a privilegiare un accordo sul nucleare rispetto al processo di democratizzazione. Quello di cui avremmo davvero bisogno è una strategia comune, che miri contemporaneamente a mettere fine al programma nucleare militare dell’Iran senza rinunciare al tentativo di promuovere un cambiamento politico nel Paese. Sebbene europei e americani siano ormai d’accordo, entro certi limiti, sull’esigenza di promuovere la democrazia nel mondo islamico, l’Iran si differenzia per molti versi dal mondo arabo e pone una serie di problemi particolari. In primo luogo, nella maggior parte dei Paesi arabi l’Occidente deve confrontarsi con élites dirigenti relativamente filoamericane e popolazioni profondamente antiamericane; in Iran è vero il contrario.
Gran parte della popolazione sembra nutrire simpatie verso gli Stati Uniti, mentre la leadership è estremamente ostile nei confronti di Washington e contraria a prendere in considerazione un rapporto più costruttivo con gli Stati Uniti. È una situazione potenzialmente positiva, perché significa che con una svolta realmente democratica il Paese potrebbe adottare un orientamento più filoamericano, mentre in molti Paesi arabi le elezioni libere potrebbero produrre l’effetto esattamente opposto. Una seconda differenza importante è che in Iran gli Stati Uniti non hanno né aiuti né relazioni commerciali da bloccare: sono privi, in sostanza, dello strumento delle sanzioni economiche. A parte il ricorso alla forza militare—che può essere escluso come strumento di promozione della democrazia, visto che scatenerebbe probabilmente una reazione nazionalistica nella popolazione e fornirebbe un solido pretesto al regime per mantenersi al potere—Washington ha davvero pochi strumenti di pressione a sua disposizione. Se non esistesse la minaccia nucleare, la scelta più sensata sarebbe di inondare il Paese di aiuti e scambi commerciali, puntando sullo sviluppo di una classe media che si farebbe carico della domanda di democratizzazione.
Abbiamo già assistito altrove a un processo del genere, in Paesi come la Corea del Sud, il Messico e l’Indonesia. Ma gli Stati Uniti, e anche l’Europa, non sono disposti a fornire sostanziosi incentivi economici all’Iran finché non verranno date garanzie oggettive che non esiste alcun programma nucleare militare segreto. Come accennato, se la questione nucleare diventasse effettivamente prioritaria, Stati Uniti ed Europa sarebbero costretti a concentrare tutta la loro influenza per risolvere questo problema, sacrificando il fronte della democratizzazione. Può darsi che sia l’unica scelta possibile; ma non è detto che funzioni. Infine, l’Iran è un caso unico, perché mentre nella maggior parte dei Paesi arabi il terrorismo scaturisce da situazioni di repressione sociale in cui i cittadini scelgono la violenza e l’estremismo islamico per raggiungere i loro obiettivi, in Iran accade sostanzialmente il contrario. Il terrorismo è di fatto patrocinato dallo Stato e la rabbia popolare sembra rivolta più contro il regime stesso che non contro il mondo esterno. Fra i terroristi dell’11 settembre non c’erano iraniani (mentre c’erano egiziani e sauditi, i cui governi sono alleati degli Stati Uniti), né risulta che cittadini iraniani siano mai andati a combattere in Afghanistan o Iraq. Nell’insieme, questi fattori rendono il processo di promozione della democrazia in Iran ancora più difficile di quanto non lo sia nei Paesi arabi, ma ciò non significa che non si possa fare niente.
Sarebbe della massima importanza, ad esempio, impegnarsi di più per promuovere un sistema di informazione libero e aperto in Iran, che includa programmi in lingua realizzati al di fuori del Paese. Più il popolo iraniano prenderà coscienza della corruzione del governo, e dei progressi democratici realizzati da altri Stati, meno sopporterà le restrizioni imposte dalle autorità. L’Amministrazione americana sponsorizza attualmente quattro nuovi programmi quotidiani dell’emittente «The Voice of America», che secondo un recente sondaggio vengono visti (malgrado un divieto ampiamente evaso sulle antenne satellitari) da circa il 10% della popolazione iraniana. Questi programmi hanno recentemente mandato in onda alcune interviste a un leader studentesco e a un militante politico, che hanno criticato i religiosi iraniani per aver impedito a centinaia di candidati di presentarsi alle recenti elezioni presidenziali. L’Occidente dovrebbe, inoltre, fare di più per promuovere i contatti tra i cittadini iraniani e quelli occidentali, anche attraverso scambi culturali e scolastici. Dato l’elevato grado di diffidenza che contraddistingue i rapporti tra Washington e Teheran, queste iniziative potrebbero essere più utilmente realizzate dai Paesi europei. Anche in questo caso, più l’Iran resterà isolato, più sarà facile per il regime mantenere una forte presa sulla società. Più gli iraniani entreranno in contatto con il mondo esterno, più vorranno prendere in mano il proprio destino. In conclusione, americani ed europei non dovrebbero sopravvalutare le proprie capacità di influire sul futuro politico dell’Iran, ma neanche rinunciare a proporsi di modificare lo status quo. La priorità nucleare viene probabilmente prima della priorità democratica. Ma è importante che il tentativo di raggiungere un accordo sul primo punto (la rinuncia dell’Iran alle armi nucleari) non danneggi il secondo (l’evoluzione democratica del Paese). Resta difficile conciliare i due obiettivi con una strategia combinata di incentivi e disincentivi. Una cosa è certa; sarà possibile solo se Stati Uniti ed Europa adotteranno una strategia coordinata e non si divideranno.
Philip H. Gordon
Direttore del Centro sugli Stati Uniti e sull’Europa alla Brookings Institution