di A. Tani, da http://www.paginedidifesa.it/2005/tani_051107.html
E’ sempre più evidente come a Teheran e dintorni sia in corso un’asperrima resa dei conti fra l’ala moderata e modernista del regime e quella dura e pura dei populisti fondamentalisti della prima ora. La prima – rappresentata un po’ sommariamente dal presidente Kathami e anche dallo sconfitto rivale dell’attuale capo dello Stato Ahmadinejad, l’ajatollah Rasfanjani – vorrebbe portare il Paese fuori dell’isolamento internazionale e proseguire in quello sviluppo economico che sta cambiando volto alla composizione, alle aspirazioni e alle percezioni della società iraniana, soprattutto dei ceti medi.
Secondo questa visione, il messaggio originario del khomeinismo andrebbe conservato, depurandolo dagli accenti confessionali più estremi, dalla chiusura radicale verso l’esterno e degli accenti di egualitarismo pauperistico originari. Questi elementi poco si confanno col clima di apertura verso il mondo, arricchimento generalizzato e laicismo crescente che lo sviluppo del Paese, trascinato dalla lievitazione del prezzo del petrolio, sta determinando da qualche anno. Dovrebbe essere invece preservata la valenza nazionalistica della rivoluzione del ’79 che restituì all’Iran un ruolo internazionale degno di una antica e gloriosa civiltà, espressa oggi in una nazione popolosa, dinamica e ricca di fermenti.
A questo approccio, che negli ultimi otto anni ha improntato il governo del Paese oltre che le dinamiche della società civile, corrisponde dal versante opposto quella che almeno nelle intenzioni si sta rivelando come un’autentica rivoluzione culturale di tipo teo-maoista, col vertice massimo che incita la base a fare piazza pulita della nomenclatura corrotta e degenerata – a “sparare sul quartier generale”, secondo il celebre aforisma di Mao – e a riconquistare la purezza originaria. Interprete e demiurgo (se durerà) del rivolgimento è il citato presidente Ahmadinejad, che è stato eletto nel giugno scorso con un favore popolare del quale nessuno aveva previsto l’entità e le conseguenze e che ora sta cavalcando a tutto vapore la tigre delle aspettative rigenerative e palingenetiche che la sua vittoria ha determinato nella parte più rozza e fanatizzata della società iraniana.
Dato il livello sempre più insopportabile delle sperequazioni sociali che si sono determinate nella stessa società in seguito allo sviluppo degli anni passati e della corruzione che ha permeato la nomenclatura di pari passo con l’elevarsi del suo reddito, non vi è dubbio che il messaggio populista trovi un gran numero di estimatori. Si tratta di un fenomeno che ha avuto molti epigoni nel passato, anche nel presente. Ad esempio, in un altro contesto petrolifero, il Venezuela di Chavez, la cui vicenda presenta non poche analogie con il caso iraniano, al di là delle ovvie differenze storiche, culturali e geopolitiche. Non ultime – le analogie – nella massa di manovra delle rendite petrolifere, recentemente iperbolizzate, a disposizione di chi detiene il potere in entrambi i Paesi. Esse consentono di tradurre il carico di risentimento e di frustrazione dei non abbienti in uno strumento operativo politico di prima grandezza a disposizione del lider maximo.
In ambedue i casi questo strumento viene innanzitutto utilizzato all’interno contro una borghesia recalcitrante verso le sorti certe e progressive, che vuole solo godersi la prosperità raggiunta. Segue, all’esterno, la supposta centrale internazionale del capitalismo imperialista e rapace che avrebbe determinato le miserie del passato e alimentato la quinta colonna interna. Ovvero gli Stati Uniti d’America nel loro sempiterno ruolo di Malvagio Perenne della modernità. Lo schema complessivo è quanto di più classico e consueto. Ricalca uno sciame di casi passati, fra i quali, nel secolo scorso, l’esperienza comunista internazionale ma anche la triade proletaria, nazionalista e fascista del “posto al sole” costituita dal Patto d’Acciaio e fiancheggiatori. La specificità del caso iraniano è costituita dal sovrapporsi, nello schema classico suaccennato, della feroce ostilità antiebraica caratteristica dell’ideologia komeinista, che fa perno sull’annoso contenzioso israelo-palestinese e lo esalta in un modo parossistico che sfugge a una spiegazione razionale o semplicemente geopolitica. In un certo senso ricorda la paranoica fobia hitleriana contro l’ebraismo, in gran parte priva di ragioni obiettive.
L’Iran non è un paese arabo – anzi, è sempre stato in rotta con i suoi vicini occidentali, si pensi alla feroce guerra con l’Iraq degli anni 80 del secolo passato – non è sunnita come la maggioranza di essi, ha sempre mantenuto, fino all’avvento di Khomeini, buoni rapporti con gli ebrei, che vivevano in pace nel caleidoscopio delle sue nazionalità. Eppure oggi è ostile a Israele come nessun Paese arabo, nonché ovviamente islamico. Poiché Israele non è in alcun modo una minaccia diretta all’Iran, né può essere considerato un competitore alla supremazia regionale, se non altro per le sue dimensioni lillipuziane e la disomogeneità etnico-culturale con il circondario, l’unica spiegazione plausibile di questa fobia è di tipo autoreferente. Ossia l’ostilità radicale dei fondamentalisti persiani verso quello che nel mondo islamico viene considerato una profonda intrusione dell’Occidente – la tesi del reimpianto storico non è stata mai accettata – riguarda soprattutto il proprio passato di arrendevolezza e servilismo verso lo stesso Occidente, simboleggiato dalla dinastia Palhevi e dall’Iran laico e kemalista che scimmiottava i padroni anglo-americani.
Di qui scaturisce anche l’odierno improvviso riesplodere di una ostilità veemente, ostentata, provocatoria contro Israele da parte dei neokhomeinisti duri e puri. Essi vogliono innanzitutto “sparare sul quartier generale” del malaffare e del compromesso con l’Occidente, ovvero sui realisti pragmatici alla Khatami che si rendono conto che il tempo delle barricate è finito e che occorre trovare una qualche intesa con i Satana di questo mondo, grandi e piccoli che siano.
Anche perché l’Iran non vive in un limbo di isolamento assoluto. E’ circondato da potenze ostili, isolato politicamente ed economicamente, debole sul piano militare (qualsiasi medio sultanato del Golfo Persico lo surclassa sul piano degli armamenti moderni). Subisce da un trentennio un embargo assoluto da parte della massima potenza planetaria, è fuori da tutti i circuiti internazionali, è soggetto a ostinate inquisizioni da parte di quell’Europa che finora gli ha consentito di rimanere in contatto con la modernità, viene investigato nei suoi recessi più segreti da una delle agenzie più importanti e prestigiose delle Nazioni Unite, l’Aiea retta dal premio Nobel Baradei – altri due segnali: un arabo islamico al quale la comunità internazionale ha concesso il massimo lauro e carta bianca per l’opera fattiva che sta conducendo contro gli aspiranti proliferatori nucleari come l’Iran. Infine, quell’Israele che viene continuamente bruciata in effige dai pasdaran ha duecento o quattrocento bombe atomiche almeno da un quarto di secolo ed è in condizioni di riportare la santa Repubblica khomeinista all’età della pietra, se dovesse sentirsi veramente minacciata. E nessun grande protettore interverrebbe.
Per gli iraniani è poco consolante, in questa situazione, sapere che il petrolio è ai suoi massimi storici. L’Iran produce due terzi di quanto produceva prima della caduta dello Scià, senza la tecnologia e gli investimenti americani e i migliori tecnici del ramo, fuggiti all’estero dopo l’avvento dei fondamentalisti. Anche l’influenza che la teocrazia di Teheran può vantare nei confronti del clero sciita iracheno – un altro dei capitali potenziali del quale il Paese può disporre – finisce per essere controproducente, se non saggiamente gestita. Se l’Iraq dovesse collassare, le macerie arriverebbero fino in Iran, senza contare che un eventuale cantone meridionale sciita, nato da una frantumazione mesopotamica, sarebbe gestito dalle multinazionali petrolifere occidentali e rispettivi governi, non certo da Teheran. Anche le prospettive di sviluppo economico che si sono aperte in un Iran in apparente boom a beneficio degli investitori esteri hanno un loro appeal ma solo se questi investitori non vengono messi in fuga. Non parliamo poi della demografia esplosiva del Paese, che è un patrimonio fintantoché i 40 milioni di giovani persiani hanno di che mangiare, di che istruirsi e di che competere con gli agguerriti coetanei dell’ “Asia landmass”. Altrimenti, sono solo un peso o una bomba a orologeria.
Insomma si tratta di opportunità potenziali di notevole interesse, che possono far rientrare in gioco un antico e glorioso Paese come la Persia, ricollocandolo al suo giusto posto (che non sarà certo quello di Serse e Dario, non si facciano illusioni i troppo orgogliosi discendenti dei Parti), ma soltanto se vengono utilizzate con saggezza acume e moderazione. Non rifuggendo da una certa dose di rischio calcolato, se del caso, ma distinguendo fra possibilità reali e velleità inverosimili, che agevolano solo le strategie dei propri avversari. Cosa che il presidente Ahmadinejad e i suoi seguaci stanno facendo alla grande. Occorrerà vedere se la sua linea prevarrà in modo integrale, come sembra in queste settimane, o se il sistema di potere iraniano sarà in grado di ricondurre il personaggio a un comportamento politicamente più accettabile. Oppure, se ciò non avvenisse, se sarà in grado di disarcionarlo senza far precipitare il Paese in una guerra civile che molti avrebbero interesse ad alimentare.
I primi segnali sono contraddittori. A parte l’incendiario discorso del 17 settembre di Ahmadinejad all’Onu e le recenti proposte del medesimo sulla cartografia mediorentale, il siluramento dei 40 ambasciatori è veramente un’avvisaglia di catastrofe imminente, se dovesse essere confermata nei termini riportati dalla stampa. Si tratterebbe, in pratica, della decapitazione della diplomazia iraniana, che rappresenta l’unico corpo professionale con esperienza internazionale del Paese. Analogamente si può dire per il blocco delle trattative per l’ammissione di Teheran al Wto, che erano recentemente partite dopo un inaspettato quanto benaugurate via libera da parte del dipartimento di Stato americano.
Sembrano invece essere rassicuranti le sorprendenti notizie sulla recente bocciatura di quattro nomine presidenziali di ministri da parte del Parlamento iraniano, nonché la messa sotto tutela di Ahmadinejad da parte del supremo Consiglio degli esperti. Quest’ultimo è presieduto dallo stesso ajatollah Rasfanjani che era stato sconfitto nelle elezioni presidenziali. E’ considerato un moderato, anche se molto inviso ai seguaci di Ahmadinejad, perché troppo ricco e probabilmente troppo corrotto (naturalmente è da appurare se combattere un male con un rimedio che è forse peggiore di esso può essere considerato una “riassicurazione”). Un’altra precisazione incoraggiante è che tutta la tematica nucleare iraniana è gestita dal supremo Consiglio di sicurezza nazionale, del quale Ahmadinejad è uno dei sei membri e neanche il più influente (è da vedere se non lo diventerà).