… scritta al Corriere, ed indirizzata alla rubrica tenuta da Sergio Romano, mi ha colpito.
Niente di che, sia chiaro. Tutte cose risapute dalle persone che lavorano nei settori politico-militari, ma il fatto che s’inizi a parlare con insistenza della necessità di creare in Italia un’equivalente del National Security Council americano mi dà qualche motivo di orgoglio…. dato che qualche tempo fa mi occupai di questo proprio nella mia tesi di laurea.
Tra l’altro proprio l’ipotesi di cui si parla in questa lettera, una sorta di trasformazione dell’attuale Consiglio Supremo di Difesa in un National Security Council nostrano, fu quella avanzata dal sottoscritto. Anche se adesso, a distanza di tempo, devo confessare che ritengo più corretto creare una struttura del genere presso l’Esecutivo che non presso la Presidenza della Repubblica (dove attualmente opera il Consiglio Supremo). L’ideale, ritengo, sarebbe una piccola riforma del Comitato Interministeriale per le Informazioni e la Sicurezza.
Con interventi legislativi di portata tutto sommato ridotta si potrebbe creare una struttura simile all’NSC statunitense.
La lettera in questione
Ho seguito le lettere che pervengono al Corriere in materia di bilanci e politica militare e me ne stupisco perché condivido ciò che Sergio Romano ha scritto nella risposta al generale Caligaris (Corriere, 27 ottobre): in Italia non è politically correct parlare di queste cose. A suo tempo, cominciando dall’ ottobre 1996, ebbi qualche parte nei lavori preparatori degli studi redatti dallo stato maggiore della Difesa ai quali Sergio Romano accenna, che restarono comunque cosa interna assolutamente sconosciuta ai più (come del resto i Libri Bianchi). La realtà è quella – paradossale – già rilevata da Romano e da alcuni dei lettori: l’ Italia tenta ancora di fare le nozze coi fichi secchi. L’ attuale bilancio della Difesa ne dà l’ ennesima dimostrazione chiacchierando di ammodernamento e di prontezza operativa e assegnando poi – cito a titolo di esempio – ai programmi di ricerca scientifica 115 milioni di euro per la parte Interforze, 5,8 per quella specifica dell’ Esercito, 2,6 per la Marina, 38,3 per l’ Aeronautica e nulla per i Carabinieri. Forse si pretenderebbe che altri bilanci, e soprattutto l’ industria privata, si facessero carico di queste onerosissime voci, sottacendo che in questi campi nessuno spende senza corrispettivo in termini di adeguate commesse. Né si può pensare di scaricarne il peso sui partner dei contratti multinazionali, perché quelli ci chiedono di partecipare in quote significative; altrimenti restiamo ai margini: che vuol dire scarsa parte per le nostre industrie, poco know how e acquisizione di mezzi progettati più per i requisiti altrui che per i nostri. Non è certo questa la sede per dilungarsi sui meriti e demeriti della Difesa e dei suoi bilanci. Vorrei piuttosto che questi scambi di idee servissero ad avviare un dibattito politico, prima ancora che tecnico, sulla nostra strategia globale. A quali rischi intendiamo far fronte, con chi e come. Con quali alleati, a quali condizioni, con quali forze, con quali compiti. E infine chi deve fare che cosa, con quali risorse e in quali tempi. E chi verifica. In quei studi di Stato maggiore si chiedeva un documento di strategia globale di questo genere. Mi chiedo se poi gli stessi militari fossero davvero tutti d’ accordo a volerlo. Avrebbe segnato l’ inizio della fine di tanti giochetti di bottega tra forze armate per conquistare denaro (poco) e prestigio; e anche un inquietante declino delle inveterate duplicazioni di mezzi e organismi, con relativi sprechi e con altrettanto relative commesse particolari all’ industria. I politici avrebbero dovuto venire allo scoperto coi propri elettori senza più giocare a nascondino con le parole. Si suggeriva pure di studiare un organismo istituzionale preposto a questa materia, qualcosa di simile – fatte le debite proporzioni – al National Security Council degli Stati Uniti. Noi abbiamo il Consiglio supremo di difesa previsto dalla Costituzione, al quale tuttavia nessuno ha mai neppure tentato di attribuire poteri adeguati. Oggi Prodi affaccia un’ ipotesi di questo tipo e mi auguro che l’ idea venga condivisa un po’ da tutti. Personalmente credo si debba dare per scontata l’ assurdità di una politica militare puramente nazionale (sarebbe come se un padroncino di taxi volesse gestire in proprio la metropolitana della sua città): a meno di limitare tutto al contrasto dell’ immigrazione illegale, del commercio di armi e droga e del terrorismo (per i quali le forze militari avrebbero compiti quanto mai circoscritti e sussidiari), l’ Italia non potrà che condurre una strategia e una politica militare inserite nelle sue alleanze e nel contesto Onu. Ma anche così occorrerà decidere se intenda partecipare alle «missioni proiettive» multinazionali con forze da semplice «peace keeping», oppure intenda prepararsi anche all’ eventualità di missioni di «peace enforcement», che sono sinonimo di guerra. Nel primo caso basteranno strumenti meno sofisticati di quelli che cerchiamo di preparare. Nel secondo occorreranno probabilmente forze di alta qualità tecnologica. In entrambi i casi l’ Italia dovrà integrarsi efficacemente nel contesto multinazionale portando contributi efficaci sul piano tecnologico e su quello operativo. E comunque dovremo deciderci per davvero a ripartire funzioni e compiti, risorse e responsabilità in base a una visione unitaria dei problemi, senza prime donne e senza alcun rispetto per i tradizionalismi apportatori di sprechi. Anche in questo campo vale il principio dell’ economia delle forze. Riccardo Nassigh