di Massimo Introvigne (L’Indipendente, 25 ottobre 2005)
Dopo il rapporto che la coinvolge nell’assassinio del leader libanese Hariri, la Siria è prossima a liberarsi come l’Iraq della dittatura del partito nazionalista Baath, ancora al potere a Damasco con Bashar al-Assad, salito al potere nel 2000 dopo trent’anni di regime del padre Hafez? “Sì ma”, è la risposta che ricavo alla Facoltà di Sharia dell’Università di Damasco, la “casa” dell’islam politico moderato siriano, dove sono stato invitato e da cui è partita l’idea di un partito islamico centrista. Ci sono certo somiglianze fra Iraq e Siria: una presidenza ereditaria – anche Saddam preparava la successione dei figli – una minoranza religiosa (gli alauiti a Damasco, i sunniti a Bagdad) che governa sulla punta delle baionette, problemi con la minoranza curda, una dura repressione del dissenso fondamentalista.
Ma ci sono anche importanti differenze. Hafez al-Assad, “la volpe”, sapeva di avere meno petrolio e meno armi di Saddam. Sapeva, soprattutto, che la minoranza religiosa alauita cui appartiene insieme al 12% dei siriani non può essere paragonata ai sunniti di Saddam, minoritari nell’Iraq prevalentemente sciita ma maggioritari nell’Islam mondiale. Gli alauiti sono invece “iper-sciiti”, esponenti di un Islam eterodosso per cui il genero e quarto successore del profeta, Alì, è un’incarnazione divina e il rivelatore di dottrine (come quella della trasmigrazione delle anime) rifiutate dalla maggioranza dei musulmani. La relativa debolezza del potere alauita – che deve la sua ascesa alla lealtà al colonialismo francese, che scelse gli alauiti come alti gradi dell’esercito – ha reso il regime siriano un po’ meno repressivo di quello iracheno, e nei primi mesi di Bashar si è perfino assistito a una “primavera di Damasco” e a una speranza di democrazia. L’11 settembre 2001, che ha fatto temere alle élite siriane l’arrivo al potere di fondamentalisti radicali, quindi la guerra in Iraq – con i vecchi quadri del partito Baath che hanno temuto di fare la fine dei loro colleghi iracheni – hanno posto fine a questa “primavera”, alcuni leader della quale sono ora in prigione.
Tuttavia i miei interlocutori a Damasco pensano e sperano che la fuoriuscita dal regime baathista non assomiglierà alla caduta di Saddam, ma piuttosto alla Turchia del 1950, quando i generali furono convinti dalle pressioni internazionali a organizzare – e perdere – libere elezioni, pur inventando un’originale democrazia in cui un Consiglio Costituzionale composto dagli alti gradi militari ha mantenuto per anni un potere di veto. Chi propugna una “terza via” fra fondamentalismo e nazionalismo in Siria si augura qualcosa di simile, che eviti la guerra civile rassicurando contro epurazioni indiscriminate il milione di membri del partito Baath, la grande industria, i militari e gli alauiti, nello stesso tempo aprendo la strada a elezioni libere dove l’Islam centrista e moderato pensa di potere battere i fondamentalisti e le sinistre.