di Andrea Tani
da http://www.paginedidifesa.it/2005/tani_051004.html
Durante una testimonianza dei massimi vertici militari americani davanti alla Commissione Difesa del Senato di Washington, che ha avuto luogo giovedì 29 settembre, è risultato che il numero di battaglioni iracheni che possono essere impiegati in combattimento senza l’assistenza delle forze della Coalizione è di uno, su ottantasei complessivi entrati in linea finora, dopo il riarmo e l’addestramento alleato. Fino a quattro mesi fa, erano tre. Dodici appartengono alla categoria 2, ossia unità combat ready, ma solo con il supporto delle unità della Coalizione.
Non si conoscono i motivi del declassamento dei due battaglioni. Potrebbero dipendere da ragioni banali come il cambio del comandante o la necessità di un ulteriore addestramento, anche se è lecito dubitarne: nell’oggi iracheno i motivi sono raramente banali. E’ più probabile che gli standard americani per determinare la liceità di un’unità da combattimento irachena a operare in modo indipendente siano assolutamente fuori della realtà locale. Non per colpa degli standard, quanto della realtà locale. C’è da stupirsi piuttosto che almeno uno fra i battaglioni di Baghdad abbia raggiunto il traguardo, peraltro attraversato da tutte le altre unità alleate presenti nel teatro iracheno.
La notizia, allucinante nella sua essenzialità, dimostra meglio di tante analisi il sostanziale fallimento, almeno per ora, del processo di ricostituzione di un’esercito iracheno che possa consentire al paese di vivere più o meno normalmente, e agli alleati – sempre più in difficoltà di fronte alle propri opinioni pubbliche – di riportare i boys a casa prima delle scadenze più cruciali dal punto di vista politico. Manovre di palazzo concernenti il leader in carica o elezioni, normalmente.
Durante la testimonianza di giovedì, i generali responsabili del versante militare della ricostruzione irachena (il Centcom John Abizaid e il comandante di teatro George Casey) hanno concordato nel delineare una situazione da “Comma 22” del puzzle che tentano di risolvere: gli americani sono percepiti come occupanti dalla popolazione civile. Quindi, per ristabilire la normalità istituzionale e sociale, prima se ne vanno meglio è. Mantenendo naturalmente le basi che il Pentagono riterrà opportune per le sue strategie globali: petrolio, processo democratico nella regione, Arabia Saudita, Cina, Iran, Israele, Russia, eccetera.
Ma per andarsene occorre che il paese sia pacificato entro un ragionevole livello o almeno che non sia in convulsioni come oggi, con 500 attentati e quasi un migliaio di morti alla settimana (dichiarazioni di Casey), intere aree del paese in mano a ribelli taliban (cinque città dell’ovest dell’Iraq da riconquistare, secondo Washigton Times) e, ancora peggio, nelle spire di quella guerra civile dei sunniti contro tutti che gli esperti presagiscono come esito più probabile delle medesime convulsioni.
Per aver qualche speranza che ciò si verifichi – e che gli unici beneficiari di Iraqi Freedom non siano gli iraniani – è evidente che i piani ottimistici di un inizio di ritiro americano dall’Iraq accennati dallo stesso Casey qualche mese fa dovranno essere rivisti, con il risultato di protrarre lo status di potenza occupante degli Stati Uniti e le connesse percezioni irachene. Mutatis mutandis, questa situazione vale per tutti i componenti della coalizione alleata (o almeno per quelli più seri e consapevoli) che stanno rivedendo piani di ritiro e illusioni collegate.
I generali hanno esposto una situazione piuttosto deprimente del processo di democratizzazione in atto, in particolare delle prospettive di approvazione della bozza di Costituzione nel referendum del prossimo 15 ottobre. I sunniti stanno cercando di allontanare a tutti i costi le prospettive di un assetto federale del paese e cercano su questo l’appoggio del nemico americano, che dà una mano come può.
L’ambasciatore Usa Khalilzad ha incontrato negli stessi giorni i notabili curdi e il stesso presidente Talabani per convincere i più ostinati settentrionali a togliere il federalismo dalla costituzione o almeno smussarne gli effetti. Oltre ai sunniti, anche la Turchia respirerebbe di sollievo. Per quanto riguarda gli sciiti, paradossalmente la loro confessione li fa essere meno predisposti a una scissione del paese rispetto ai curdi, perché sono consapevoli che essa significherebbe passare dalla potestà di Baghdad a quella di Teheran, e non è detto che la cosa sarebbe di loro gradimento. Esiste una antica rivalità teologica fra le fazioni dello sciismo al di qua e al di là dell’Eufrate, senza contare che la gran parte degli sciiti iracheni si sentono tutto sommato più iracheni che sciiti.
Se si vuole che l’Iraq resti uno e non si frazioni in tre o più parti nel giro di qualche anno, la riduzione della valenza federale della costituzione sembrerebbe essere l’unica opzione a disposizione, indipendentemente dal fatto che sia praticabile o meno. “L’Iraq è uno o non sarà”. Non lo ha detto nessuno in questi termini, almeno a conoscenza di chi scrive, ma avrebbero potuto controfirmare la frase tutti coloro che hanno avuto a che fare con il problematico paese, da Winston Churchill che l’ha inventato a Saddam Hussein che l’ha sfasciato.
Secondo l’influente senatore americano Levin (un altro intervenuto negli “hearings” del Congresso americano), è probabile che il 15 ottobre i sunniti votino in modo compatto contro la bozza di costituzione – e questa sarebbe una buona cosa, perché metterebbero fine al loro boicottaggio del processo democratico in avanzata nel paese – ma non saranno in grado di farla bocciare. E questa sarebbe una pessima cosa, perché aumenterebbe il loro estraniamento alla costruzione di un nuovo Iraq.
Levin ha anche citato un recente rapporto dell’influente International Crisis Group che prevede l’acutizzarsi dell’insurrezione in atto a causa dal processo costituzionale. Il risultato di un’iniziativa così lodevole e ragionevole potrebbe finire per incoraggiare la violenza etnica e settaria, precipitando la dissoluzione dell’Iraq. Quando Levin ha chiesto a Casey cosa ne pensasse di questa fosca previsione, il generale ha risposto: “Penso che sia del tutto possibile”.
Queste previsioni si sommano all’evidenza sempre più straripante di uno scontento generale dell’opinione pubblica statunitense per tutto quello che riguarda la guerra. A un recente sondaggio Nyt-Cbs post Katrina, l’80 % degli interpellati ha risposto di non essere affatto d’accordo che il governo spenda ogni mese cinque miliardi di dollari in Iraq, sottraendoli alle risorse necessarie per tamponare le molte falle – infrastrutturali e non solo – che le recenti emergenze hanno evidenziato all’interno degli USA. Il 50% degli interpellati si è detto convinto che la guerra in Iraq sta distraendo Bush dai problemi interni.
Risulta sempre più evidente, inoltre, che uno dei motivi più importanti – anche se non proclamati – per il quale Saddam Hussein è stato defenestrato (rimettere le mani sul petrolio iracheno e farne nuovamente uno dei pilastri della stabilità energetica internazionale) sia stato disatteso del tutto, almeno per il momento. Un documentato articolo di Asia Times – “The failed mission to capture iraqi oil” – mette in evidenza con dovizia di particolari quanto questo obbiettivo sia stato mancato.
Un dato per tutti: a maggio di quest’anno, a ben due anni e mezzo dall’invasione, la produzione di petrolio iracheno si è attestato a 1.9 milioni di barili al giorno a fronte dei 2.6 del gennaio 2003, immediatamente prima dell’attacco del Centcom. Le previsioni del dipartimento dell’Energia statunitense del 2002 dicevano che con una adeguata iniezione di investimenti la produzione irachena poteva arrivare a cinque milioni di barili o più, non lontano dai livelli sauditi. Secondo il vicepresidente Cheney e l’allora sottosegretario alla Difesa Wolfowitz, la ricostruzione irachena si sarebbe dovuta “finanziare coi proventi del petrolio”.
Anche tenendo conto del raddoppio del prezzo del greggio intervenuto nel frattempo, è difficile che l’1.9 di cui sopra copra i cinque miliardi di dollari spesi dall’erario americano. A occhio e croce, farebbero poco meno di 3.6 miliardi di “bucks” che, a quanto si è capito, finiscono nelle casse dello Stato iracheno. Anche ammettendo che qualche Sorella statunitense ci prenda i suoi utili, la cifra complessiva che torna in Usa (nei libri contabili di una società privata, peraltro, non nel bilancio federale dal quale provengono i cinque miliardi), è ben inferiore a quanto questi spendono e continuano a spendere per assaporare i frutti della vittoria.
In realtà il petrolio iracheno ha portato soprattutto guai sia alimentando la citata spaccatura fra sunniti e sciiti-curdi, che si basa sulla disomogeneità geografica dei giacimenti quasi del tutto assenti nell’area sunnita, sia assorbendo una forte aliquota delle già esigue forze anglo-americane per la protezione delle infrastrutture petrolifere settentrionali e meridionali (solo loro hanno a che fare con i giacimenti, ovviamente). Il tutto in un momento nel quale gli Stati Uniti sono diventati ancor più dipendenti dal petrolio di importazione di quanto non siano mai stati (53% sul totale nel 2002 con previsioni del 66% nel 2025). Gli uragani recenti e l’insaziabile voracità energetica di Cina e India hanno peggiorato le prospettive. Il contenzioso nucleare con l’Iran e le sue riverberazioni sul mercato del greggio non aiutano.
Col senno di poi si può osservare che l’idea di ricondurre il petrolio iracheno nel circuito virtuoso della distribuzione internazionale non fosse affatto peregrina, a parte la scelta dei pretesti che poteva essere un tantino più ineccepibile. Molto più discutibile l’idea di abbattere l’unico regime laico forte in uno scacchiere caratterizzato da un dilagante fondamentalismo confessionale. Quello che appare del tutto inescusabile è che il primo obiettivo – ancora più legittimo se lo si associa con l’eliminazione di un odioso e tracotante tiranno, megalomane e proliferatore accanito, caratteristiche che sminuivano molto l’appeal del citato laicismo – non sia stato affrontato con la pienezza di risorse che la situazione richiedeva.
L’improvvisa grettezza del Pentagono in Iraqi Freedom e vicende seguenti è ancor più stupefacente, se si pensa che la tradizione delle forze armate americane è sempre stata quella di soverchiare il nemico sul piano materiale, prima che su quello dell’abilità professionale o della potenza ideologica. E’ successo questa volta forse perché sono stati i militari a essere soverchiati da una supremazia politica, che – come sempre – credeva che qualsiasi guerra fosse cosa troppo seria per essere lasciata ai generali.
Rumsfeld si sentiva troppo “best&brightest”, lui che era stato trent’anni prima il più giovane segretario alla Difesa delle storia degli Stati Uniti, per dare ascolto a un qualsiasi capo di stato maggiore – magari dell’Esercito – che gli diceva quanti dovessero essere i soldati a combattere questo conflitto. Una pretesa irragionevole per un generale che era solo uno del mestiere e non aveva fatto l’apparatnik repubblicano o l’industriale di successo. Il risultato è che oggi i generali dicono mestamente ma chiaramente ai politici quello che questi ultimi non hanno più il coraggio neanche di vagheggiare. Non è la prima volta e non sarà neanche l’ultima.